Il rickshaw avanza a scatti sull'asfalto dissestato in direzione della moschea. Abdul lo manovra con sicurezza, mettendo a segno sorpassi impossibili in un dedalo di stradine ostruite da carretti, cani, vacche, biciclette, autobus, sacchi di patate e persone. Dopo un tratto più scorrevole, raggiungiamo la strettoia della città vecchia, una sorta di check point architettonico, in prossimità del quale decine di veicoli di ogni forma e colore si ammassano, ciascuno nella propria direzione, aspettando di infilarsi in un varco e proseguire la corsa. L'attesa è lunga, e presto l'aria si fa irrespirabile a causa dei gas di scarico vomitati dalle marmitte, e del pulviscolo onnipresente. Poi gli odori del bazar, infiammati dal solleone di metà ottobre, il puzzo di piscio, e ancora pelli di capre stese ad asciugare dai macellai musulmani. Ci troviamo a Bhopal, importante città industriale, nonché capitale dello stato indiano del Madhya Pradesh, appollaiata in una zona collinare nel cuore dell'India. I merletti sui palazzi disegnano motivi mediorientali, gli arabeschi sfumano oltre i tetti in mattoni rossi lasciando spazio ad imponenti minareti, segni evidenti del passato splendore Mughal. Tuttavia, a rendere Bhopal unica non è tanto l'eredità artistica islamica, ma quella industriale, più recente, di provenienza occidentale. In questo luogo, la notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984 si consumò il più grave disastro chimico della storia, provocato da una perdita di 40 tonnellate di isocianato di metile (Mic), sostanza altamente tossica usata per la produzione del Sevin, pesticida agricolo, nello stabilimento della Union Carbide. Quella notte, a proiettarsi sul cielo della città fu un potente getto di gas, uscito da un camino dell'impianto lasciato in una condizione di incuria, perché non più produttivo. Spinta dal vento, la nube tossica si diresse verso il centro della città cogliendo gli abitanti nel sonno, a cominciare dalle abitazioni degli operai, ammassate oltre il cancello di ingresso. «Il gas era talmente potente da uccidere sul posto ottomila persone – spiega Sathyu, coordinatore dell'associazione per la tutela delle vittime, Sambhavna Trust –, poi avanzando mutò la composizione, così altre ventimila, forse trentamila persone morirono nei mesi successivi (secondo i dati ufficiali quella notte morirono 1.754 persone). Oltre a mezzo milione di intossicati».
Si cercò immediatamente di comprendere le cause, per attribuire le responsabilità. «A provocare l'incidente fu un sabotaggio», si legge nella mezza pagina dedicata alla vicenda nel sito della statunitense Union Carbide. Poi ancora «fu una terribile tragedia, che continua ad evocare grande emozione. La Union Carbide ha lavorato diligentemente per predisporre immediato e continuo aiuto alle vittime, soddisfacendo tutte le richieste e ottenendo l'approvazione della Corte Suprema dell'India». Rispetto ai 3 miliardi e 300 milioni di dollari chiesti come risarcimento, nell'89 la multinazionale statunitense spuntò un accordo per 470 milioni, ma dopo la parcella degli avvocati (un terzo del totale) e i bocconi dei politici, rimasero appena 300 dollari a persona. Presto le cause civili e penali, così come le richieste di estradizione avanzate nei confronti dell'amministratore Warren Anderson, si trasformarono in una lotta contro i mulini a vento. Non ancora conclusa.
Sono trascorsi 24 anni dalla notte del disastro, e lo stabilimento in rovina continua a provocare gravi contaminazioni e vittime. Per capirne di più siamo andati sul posto, dopo aver ottenuto il permesso dal Collector di Bhopal. L'ingresso della "Bella Fabbrica" – così come fu battezzata alla fine degli anni '70, quando rappresentava una promessa per migliaia di lavoratori, al motto di "safety first" (la sicurezza per prima) –, si trova in Union Carbide road, dove Abdul ci accompagna in rickshaw. Alla nostra sinistra scorrono le case in muratura che un tempo appartenevano agli operai, o a chi si era costruito un'attività di ripiego. Queste furono le prime case ad essere investite dalla nube di gas. Sulla destra invece si allunga una recinzione in rete e cemento, sovrastata dalla vegetazione incolta, oltre la quale spuntano dei camini e grigie strutture visibili in lontananza. Al cancello veniamo accolti da un poliziotto, di nome Prakash, munito del bastone in bambù in dotazione alle forze dell'ordine. Legge a fatica le motivazioni della nostra visita, tuttavia, convinto dai timbri governativi ci invita a seguirlo. Procediamo sulla destra, lungo una strada scura in catrame arroventato dal sole. Su ambo i lati crescono sterpaglie di ogni tipo, alte fino a tre metri, da dove sbuca un piccolo gregge di capre, seguito da una famigliola di pastori vestiti di stracci. «Viviamo oltre la ferrovia, dall'altra parte – spiega in hindi un vecchio, circondato da due nipoti e dalla moglie –, veniamo qui a far pascolare gli animali perché c'è molta erba». Gli faccio notare che le piante crescono su un terreno inquinato, e che il tutto si trasmette al latte, e alla carne degli animali. Il vecchio si limita ad annuire, dondolando la testa nel tipico stile indiano a metà strada tra il sì e il no, aggiungendo che il vero problema è rappresentato dall'acqua. Dopo un rapido saluto, torno da Prakash che con un cenno della testa mi invita a seguirlo nel fitto della vegetazione, e aiutandosi col bastone apre un varco fino ad un piccolo edificio in rovina, invaso da calcinacci e vetri, mentre agli angoli sono ammucchiate vecchie ampolle, poi bottiglie che probabilmente contenevano solventi o altre sostanze usate per elaborare le miscele. «Qui c'era un laboratorio chimico – commenta l'agente –, è rimasto tutto per terra, in stato di abbandono». Usciamo attraverso una seconda apertura, dalla parte opposta rispetto all'ingresso. Pochi passi e siamo nuovamente sull'asfalto della strada, che prosegue per 400 metri in un boschetto, giungendo in vista dei casermoni grigi osservati dal rickshaw. Era questo il centro produttivo principale, e più ci avviciniamo, più realizziamo l'imponenza del complesso, composto da almeno 5 strutture satellite rivestite in gran parte di pannelli in eternit. «Laggiù vivono altri quattro poliziotti – spiega Prakash, indicando un basso edificio 50 metri più a sud –, di giorno dormono, ma la notte devono sorvegliare l'area in quanto la fabbrica è composta da materiali costosi, e verrebbe smantellata in poco tempo».
Cerco di capirne di più, scoprendo che a sud della città si concentrano le abitazioni dei più poveri, gente che vive alla giornata e che vede nei pannelli in eternit una possibilità di guadagno, o almeno del buon materiale per rinforzare i tetti delle baracche. Del resto, in un'India in cui ancora oggi le donne si guadagnano da vivere lavorando l'amianto a cottimo, direttamente in casa per accudire i figli, il termine "cancerogeno" non ha alcun significato! Qui ci soffermiamo a lungo, entrando negli edifici, dove domina un groviglio di tubature arrugginite, avvolte da resti di isolanti a brandelli, con materiali di ogni sorta sparsi al suolo. Cisterne in disuso portano ancora scritte leggibili: "Reactor 1". Camminiamo calpestando del materiale granuloso, di colore beige, composto da frammenti dalla forma del tutto innaturale vagamente simili alla sabbia lavica. «Lì è proibito andare» mi avvisa Prakash, a causa del mercurio, che a 24 anni dalla chiusura dello stabilimento resta in superficie. Ci dirigiamo ora verso il confine meridionale, delimitato dalle rotaie e da un piccolo agglomerato di baracche, dalle quali spuntano un paio di bambini incuriositi, che reclamano una foto. Siamo nell'area dove più si fa sentire la contaminazione del suolo e dell'acqua. Sul terreno nascosto dalla vegetazione, spiegano alla Sambhavna Trust, sono sparse circa diecimila tonnellate di rifiuti chimici e metalli pesanti, soprattutto mercurio, benzene, nichel, piombo, cloroformio, tetracloruro di carbonio e altro ancora, segnalati in documenti ufficiali sin dall'82. Sostanze altamente tossiche, che con le piogge stagionali scorrono sul terreno andando ad inquinare irrimediabilmente i pozzi e le riserve idriche da cui ogni giorno attingono venticinquemila persone. In particolare piombo e mercurio, rilevati addirittura nel latte materno, mentre nell'acqua i livelli di inquinamento da metalli pesanti sono 5 milioni di volte oltre i limiti. Non stupisce dunque, se soprattutto a sud dello stabilimento continuano a registrarsi casi di gravi patologie tra i neonati, identificati come la "seconda generazione di Bhopal". Anche in questo caso si è cercato di attribuire le responsabilità, avviando una causa presso l'Alta Corte indiana, e chiedendo un anticipo di 10 milioni di rupie alla Dow Chemical (multinazionale che ha acquisito la Union Carbide nel 2001) per avviare le operazioni di bonifica. Questione ancora aperta in attesa che si stabilisca a chi compete la giurisdizione.


I genitori e i figli della nube tossica

E il destino della seconda generazione di Emanuele Confortin da Bhopal «Nei giorni seguiti al disastro, nessuno aveva la forza di reagire, la città era stata privata della propria anima. Io stesso ho aiutato ad ammassare centinaia di corpi». Sono queste le parole con cui T. R. Chouhan, ex dipendente della Union Carbide, descrive l'indomani del massacro. A differenza di altri 650 operai, rimasti senza lavoro dopo la chiusura dello stabilimento nel novembre dell'84, all'epoca della tragedia lui era ancora assunto. «Lavoravamo in condizioni di pericolo – continua l'ex operaio, autore di due libri sui retroscena –, a rischio di contaminazione da sostanze chimiche. Nell'81 tre colleghi furono esposti ad una fuoriuscita di gas, e uno morì dopo 72 ore». Racconta che il loro salario era di poco superiore alla media, tuttavia non sufficiente se considerati i rischi. «Avevamo un sindacato interno che spingeva per vederci riconosciuti degli aumenti e per la realizzazione dei sistemi di sicurezza. Tutto invano, ricordo che dei sindacalisti furono anche licenziati».
Qualcuno di quei lavoratori morì in seguito al disastro, altri trovarono un impiego pubblico messo a disposizione dal governo, altri ancora furono assunti da aziende private, ma tutti continuano a portare dentro un pesante fardello. La consapevolezza che le responsabilità non siano state chiarite del tutto, almeno in sede legale, cui si aggiunge il gravissimo problema dell'inquinamento della falda acquifera, divenuto una tragedia nella tragedia. «Nell'84 tantissimi bambini e ragazzini sani furono esposti alla contaminazione – spiega Tarun Thomas, volontario del Chingari Trust, Ong che fornisce assistenza ai bambini nati con malformazioni –, alcuni si ammalarono, altri per lungo tempo non manifestarono sintomi particolari. Tuttavia, molti dei figli di quella generazione nascono con deformità, ritardi mentali, cecità, problemi di cuore, poi casi di cancro precoce con incidenza ben superiore alla media. Purtroppo il problema non sembra destinato ad esaurirsi, colpa della contaminazione delle falde acquifere, all'origine di nuovi casi, e di gravi patologie dovute all'avvelenamento». Entriamo nell'edificio a due piani del Chingari Trust, dopo tre passi nel corridoio centrale notiamo sulla sinistra un paio di stanze adibite a sala giochi, lettura e insegnamento. Come d'abitudine in India ci si siede sul pavimento, nel caso preparato con stuoie e materassi spessi 5 centimetri. Sulla destra troviamo invece la sala riabilitazione, la più importante dell'edificio, dove vengono prestate cure a decine di bambini colpiti da deformazioni e problemi alle articolazioni. «Per quanto piccola e attrezzata con strumenti un po' obsoleti – commenta Tarun –, riusciamo ad alleviare le sofferenze dei nostri piccoli pazienti, sollevando anche le famiglie da costi che non riuscirebbero mai a coprire. È in questo modo che parte della gente di Bhopal sarà costretta a guardare il proprio futuro».

Pubblicato il 

21.11.08

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