Sono in molti in questi giorni a chiedersi come mai in Birmania (rinominata Myanmar), una giunta militare violenta e corrotta possa continuare a perpetrare il proprio strapotere ai danni di una popolazione affamata, stremata e priva della minima libertà. Non si capisce perché il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non intervenga attivamente, con robuste sanzioni che frenino le intemperanze dei generali e le repressioni dell'esercito, schieratosi con le armi contro le manifestazioni pacifiche dei giorni scorsi. La "ribellione zafferano", così come è stata definita, ispirandosi al colore delle tuniche dei monaci buddisti, scesi in piazza assieme a studenti e lavoratori, per protestare contro i rincari imposti dal governo. Ebbene, dopo l'uccisione di decine di manifestanti, in gran parte monaci, e di un fotoreporter giapponese, nonostante continuino i rastrellamenti nei monasteri, gli arresti e nelle strade delle principali città sia stato imposto il coprifuoco "dall'alba al tramonto", il Consiglio di Sicurezza ha potuto solo mandare a Rangoon l'inviato speciale Ibrahim Gambari, in visita ufficiale.
Si tratta indubbiamente di un primo passo, che tuttavia non cancella il "flop" per la mancata approvazione delle sanzioni proposte dagli Usa e sostenute dall'Ue, ma rimaste potenziali per le divergenze avvenute tra i 15 del Consiglio di Sicurezza, dove Cina e Russia hanno bloccato la risoluzione. Ecco che mentre al Palazzo di Vetro l'ambasciatore cinese Wang Guangya spiega come «le sanzioni non aiutino la situazione laggiù», scopriamo che la Cina tenta in questo modo di mantenere la "stabilità" della dittatura, per salvaguardare i massicci interessi economici in Birmania. Il tormentato Paese asiatico, dispone infatti di ingenti riserve di gas naturale (2'500 miliardi di metri cubi, l'1,4 per cento delle riserve mondiali) e petrolio, poi legno di tek e pietre preziose, risorse indispensabili per alimentare il fabbisogno energetico della confinante Cina. Da notare anche l'importanza del fiume Salween, entrato nelle mire del dragone che ha progettato la costruzione di grandi dighe (oltre ad un oleodotto e un gasdotto), che forniranno 16 mila megawatt di energia. Ecco che le vantaggiose concessioni sulle risorse birmane, vengono controbilanciate da Pechino con forniture segrete di armi, il cui valore supera il miliardo di dollari, indispensabili al regime per mantenere il secondo esercito del Sudest Asiatico, forte di 400 mila soldati. Sempre dalla Cina giungono anche imprese pubbliche e private che realizzano ponti, centrali, fabbriche e strade, necessarie al governo cinese per assicurarsi uno sbocco strategico sull'Oceano Indiano, preziosa alternativa all'imbuto dello stretto di Malacca. Infine, vanno esaminate le ripercussioni politiche che la ribellione birmana potrebbe innescare in Cina, costretta ad arginare monaci e altri sostenitori dei movimenti pro Tibet, occupato dalle truppe di Pechino negli anni 60. Ecco che la riscossa delle tuniche birmane e il ristabilirsi della democrazia, potrebbero animare ulteriormente i sostenitori del Dalai Lama, attualmente esule in India.
Per quanto paradossale, è proprio New Delhi l'altro influente sostenitore della Sdrc (State Development and Restoration Council, come si fa chiamare la giunta militare). Ogni anno infatti, il governo indiano investe milioni di dollari in Birmania, per garantirsi accesso alle risorse e consolidare uno sbocco commerciale strategico, grazie al quale petrolio e gas scorrono sulla Piana Gangetica, in cambio di armamenti e sostegno internazionale. Non stupisce quindi se New Delhi vede la questione birmana come un "affare interno", risparmiandosi così una presa di posizione ufficiale, che potrebbe favorire Pechino nella corsa allo sfruttamento del Paese asiatico. Oltre a dover competere con la Cina, il flirt dell'India con la dittatura birmana è minato anche dalla Russia, che doterà la giunta della prima centrale nucleare, dotata di un reattore ad acqua leggera della capacità di 10 megawatt, che utilizzerà uranio arricchito al 20 per cento.
A quanto pare, salvo improbabili rivelazioni da parte di Gambari, la soluzione birmana continua a dipendere dai giochi di potere in atto tra i giganti asiatici.


Monaci e sindacalisti artefici della protesta

Per quanto oppresso da un regime militare violento e imprevedibile, avvezzo ai rastrellamenti e capace di soffocare l'unico partito di opposizione, il popolo birmano è tornato a chiedere con forza la democrazia. E lo fa sfoderando l'arma più potente di cui dispone: la nonviolenza. Sebbene negli ultimi 2 anni l'esercito abbia inibito l'azione di ribelli e oppositori, a fine agosto è scoppiata la protesta a causa dell'aumento del costo della benzina, raddoppiato da un giorno all'altro, provocando così rincari anche per generi alimentari e di prima necessità. Ecco che nei giorni scorsi le manifestazioni sono continuate, e alle migliaia di monaci buddisti che hanno animato la protesta, si sono aggiunti studenti e lavoratori, organizzati da sindacalisti clandestini. Mentre la veste ufficiale dell'opposizione è quella della Lega Nazionale della Democrazia (Lnd), e il suo volto quello del premio nobel Aung San Suu Kyi, il coordinamento del popolo birmano è possibile grazie all'influenza dei monaci e ad una organizzazione sindacale che negli anni si è estesa a imprese e servizi pubblici, arrivando persino nei ministeri e nell'esercito.
Lo scopo ovvio è quello di destabilizzare la dittatura, creando delle falle nel governo tali da permettere la (ri)presa del potere da parte del popolo. 'Ri' per sottolineare come nel 1990 la Lnd avesse ottenuto l'80 per cento dei voti alle elezioni, pur non essendo mai riuscita ad arrivare all'esecutivo.

Pubblicato il 

05.10.07

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