I vincitori hanno sempre ragione e prendersela con il potere non proprio occulto dei persuasori è come lottare contro i mulini a vento. Così potrebbe essere interpretato l'esito elettorale d'ottobre. Molti frettolosi commentatori parlano dell'ennesimo episodio nella fine annunciata del Sonderfall elvetico, fatto di concordanza e domesticazione del confronto politico; sarebbe la conseguenza di un'omologazione verso la polarizzazione, la personalizzazione e l'emotività come già avviene in altri paesi. Eppure l'analisi delle impostazioni programmatiche dei partiti borghesi e delle campagne recenti delle lobby economiche, che usano sfacciatamente ipocrisia, manipolazione dei fatti e demagogia, dovrebbe andare oltre la semplice registrazione dei successi elettorali, della seduzione dell'opinione pubblica e della difesa degli interessi di parte in ambito parlamentare e nei processi decisionali. In gioco è una concezione liberista e strumentale dello stato, diversa da quella costruita in decenni di coabitazione politica tra destra, centro e sinistra.

La "blocherizzazione" della Svizzera non si misura soltanto in quel quasi 30 per cento di consensi all'Unione democratica di centro (Udc), ma soprattutto nelle regole del gioco dettate da un populismo di destra contemporaneo, diverso da quelli ormai datati di un Le Pen francese, di un Haider austriaco o della coalizione italiana Berlusconi-Bossi-Fini, anche se sempre tributario del ricorso ai capri espiatori di sempre: approfittatori dello stato sociale, stranieri criminali, sinistra buonista e statalista. È il risultato non tanto di ricette fascistoidi – come ha denunciato il consigliere federale Pascal Couchepin – o "poujadiste" – legate a clientele contadine e piccolo borghesi ormai minoritarie persino in questi ceti –, bensì di una consapevole strategia "imprenditoriale" di occupazione delle leve dello stato, di occultamento di interessi egoistici e di costruzione di falsi antagonismi. In questo senso Blocher adotta una linea berlusconiana, come ha sottolineato il presidente liberale Fulvio Pelli in un'intervista al settimanale argoviese Sonntag del 14 ottobre 2007.
Consigliere federale, leader carismatico e riconosciuto del suo partito che gestisce come un'azienda, abile marionettista dietro le quinte, Blocher ignora come Berlusconi la dimensione morale, gioca sulla ricchezza personale e su un uso spregiudicato e in questo caso gratuito – con l'eccezione del "suo" settimanale Weltwoche – dei media anche indipendenti e del servizio pubblico, intrappolati da una sequela continua di colpi giornalistici sapientemente provocati. Grazie ai soldi di Blocher e dei suoi amici, l'Udc può peraltro finanziare una valanga di pubblicità politica, oltremodo allettante proprio per la cosiddetta grande stampa indipendente. Con le sue concrete iniziative ministeriali e grazie alle prese di posizione dell'Udc, Blocher fa senz'altro il gioco dell'industria farmaceutica, facendosi il paladino della protezione dei brevetti e opponendosi con delle contro-verità alle importazioni parallele; inoltre sul piano fiscale è garante delle prerogative della piazza finanziaria, gelosa delle sue "libertà" extra-Unione europea. Le associazioni padronali di questi due settori, esplicitamente vicine al "loro" consigliere federale, sono del resto in prima linea nel distribuire mandati per perizie di parte dallo scarso valore scientifico e nel rivendicare soluzioni su misura a loro favore. Rispetto all'affarismo tutto privato di Berlusconi, Blocher gioca quindi la carta del big business internazionale.
Ma proprio rinchiudendosi nello schema di una "Montecarlo alpina", il tribuno Udc si priva di una possibile grande missione politica, la sua vera ambizione. Certo può sbeffeggiare le reazioni preoccupate o persino allarmiste della stampa estera, ma preferirebbe essere altro che un paria politico in Europa, considerato soltanto per i dossier tecnici di sua competenza nei confronti dell'Ue. La brama di potere di Blocher, l'aggressività e l'assenza di scrupoli derivante dalla convinzione d'aver ragione solo contro tutti, il conservatorismo, lo sciovinismo nazionalista e la xenofobia, il disprezzo per l'asserito bizantinismo della classe politica e degli alti funzionari, l'anti-europeismo primario sono gli ingredienti della macchina propagandistica della nuova Udc. Sorreggono la "berlusconizzazione" tardiva della Svizzera, una forma politica in cui si demonizza il nemico "rosso-verde", reso responsabile della presunta insicurezza e eccessiva tolleranza nei confronti degli stranieri criminali e di chi abusa dell'aiuto sociale. Ma di tipo berlusconiano è pure la visione estrema dello stato neoliberale auspicato: povero con i deboli e garante dei privilegi delle proprie clientele (dai contadini, ai proprietari di case, agli azionisti, agli importatori, fino alle multinazionali farmaceutiche).

L'egoismo della nostra classe dirigente

Qui la lettura del blocherismo può ricollegarsi all'analisi del neoliberismo della giornalista canadese Naomi Klein, che parla di «una controrivoluzione dell'élite, che non vuole più condividere la ricchezza, esige meno imposte e vuole indebolire i sindacati» (Sonntagszeitung del 21 ottobre 2007). Klein è l'autrice di una controstoria del neoliberalismo: "Shock economy – L'ascesa del capitalismo dei disastri" (Rizzoli 2007). Un'analisi improntata a un anti-neoliberalismo primario e manicheo non sarebbe molto utile, perché ormai troppo estesi sono i processi di liberalizzazione nel mondo in Europa e in Svizzera. Ma negli ultimi anni è indubbio che attorno all'Udc e alla destra del Plr e del Ppd si è coagulato un blocco di grandi dirigenti superpagati, di banchieri e finanzieri d'assalto, di capitani d'industria, di proprietari immobiliari, di danarosi stranieri in fuga dal fisco dei loro paesi e di rampanti d'ogni tipo, tutti mossi forse da qualche afflato ideologico neoliberale ma soprattutto dall'egoismo di classe. L'ossessione dell'ottimizzazione fiscale per le persone fisiche e le società è la chiave di volta per costruire questo intreccio di interessi; ma sarebbe illusorio negare che questa alleanza permea ormai strati ampi, alletta anche l'industria e ha ampiamente contagiato i cantoni. Sintomatico è l'intervento recente dell'organizzazione padronale  Economiesuisse, che giocando su alcuni dati statistici  interpretati tendenziosamente cerca di dimostrare che sono soprattutto i ricchi ad alimentare le casse dello stato: lapalissiano e semmai appena proporzionale alla ripartizione della ricchezza.
Così la discussione sulle riforme fiscali si concentra sulle varianti di Flat Tax; la fine della aliquote progressive va sicuramente a favore dei più agiati, ma viene contrabbandata con promesse inverosimili al ceto medio. Si vanifica per l'ennesima volta una revisione che tenga conto anche dei criteri di equità e socialità e dell'incentivazione del risparmio energetico e della salvaguardia ambientale.
Il risultato avvilente è la tendenza verso uno stato sempre più magro, che difficilmente può affrontare serenamente e con lungimiranza la ridefinizione dei suoi compiti. Le grandi sfide sono la valorizzazione del capitale umano, la formazione delle nuove generazioni, il riconoscimento dell'intelligenza collettiva e la promozione della piazza scientifica e tecnologica.
È il paradosso di una Svizzera, che gode di una congiuntura economica favorevole e di un assetto societario tutto sommato dinamico e con reali capacità integrative, ma rimane prigioniera di una spirale di aumento delle ineguaglianze salariali e patrimoniali e di una polarizzazione sociale dovuto a ragioni pretestuose, ideologiche e appunto egoistiche. Il deterioramento del clima sociale, il conflitto dell'edilizia inscenato dal padronato per dare una lezione ai sindacati, il tiremmolla infinito sugli accordi bilaterali e le misure fiancheggiatrici eccetera, sono fattori che minano la solidarietà e che compromettono la crescita stessa dell'economia e della produttività sociale e quindi del benessere di tutti.
Da giorni si ripete che "dopo le elezioni è prima delle elezioni". Infatti l'Udc punta a corto termine sulla destabilizzazione dei consiglieri federali non graditi (Pascal Couchepin, Moritz Leuenberger, Samuel Schmid) e sulla conquista della Cancelleria federale. Ma a medio termine si vuole arrivare all'occupazione dei posti chiave e al paradigma di uno stato al servizio della linea del partito, sulla falsariga del dettato blocheriano dei consiglieri federali come cinghia di trasmissione. Del resto Blocher, che ha istaurato un rapporto quasi monarchico con il partito, ha fretta; i prossimi 4 anni in governo dovrebbero essere gli ultimi perché al termine del mandato avrà 71 anni. Vuole forgiare uno stato socialmente minore senza reali compiti ridistributivi, ma non ha alcuna intenzione di sopprimere lo stato nazionale in quanto tale; il suo è un liberismo zoppo e miope in cui lo stato resta lo strumento per preservare rendite di posizione e interessi protezionistici sul piano europeo e internazionale.
Tuttavia più che di una discussione sui fantomatici "patti" tra elettori, partiti e governo, sulle giuste tattiche elettorali e sulla modellistica fiscale, la Svizzera ha bisogno di una nuova cultura politica per affrontare i problemi di una società attraversata da profonde trasformazioni delle forme del lavoro e della convivenza, dalla gestione del territorio e del traffico e dai mutamenti climatici e ambientali. Altrimenti la blocherizzazione e la berlusconizzazione del costume politico continuerà a generare veleni e a favorire l'affarismo liberista. In una situazione di crisi profonda della rappresentanza, vi è un rischio di monopolizzazione dello spazio pubblico da parte delle forze politiche più rumorose. Ciò impedirebbe le soluzioni magari controverse e combattute ma comunque necessarie e urgenti che possono emergere da un modello pluralista. A condizione ovviamente che le voci centriste e rosso-verdi siano davvero udibili e sostanziali.

Pubblicato il 

23.11.07

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