Le parole cambiano senso a seconda di chi le pronuncia. Dopo le bordate negli anni scorsi del direttore della Ssic Edo Bobbià sugli ostacoli burocratici che impedirebbero alle imprese ticinesi di partecipare agli appalti pubblici in Lombardia, oggi è un senatore italiano a puntare il dito contro quello che viene definito un mostro burocratico della vicina penisola: la legislazione del lavoro. Pietro Ichino, giuslavorista vicino alla Cgil, deputato alla camera per il Pci dal 1979 al 1983, tra i fondatori del Pd nel 2007 e senatore di questo partito dal 2008 al 2013, nelle elezioni dello scorso febbraio è stato eletto al Senato nella lista di Mario Monti. A suo avviso il diritto del lavoro italiano sarebbe un unicum in Europa, inadeguato, vecchio, generatore di ineguaglianze e... intraducibile in inglese.


Seguiamo il suo ragionamento. In Italia il diritto del lavoro nella sua interezza si applica di fatto oggi circa a una metà dei lavoratori dipendenti. Questo perché gli ispettori del lavoro riescono a cogliere soltanto una piccolissima parte degli abusi, e i lavoratori ricorrono molto raramente al giudice, oppure perché il diritto del lavoro nelle imprese fino a 15 dipendenti si applica con delle limitazioni, o non si applica affatto nel caso delle cosiddette partite Iva. Praticamente i datori di lavoro possono scegliere se applicare o no la legge.


Dunque occorrerebbe disporre di un ordinamento fatto di norme semplici, chiare e che sia applicabile a tutti i lavoratori – subordinati, indipendenti, precari nelle varie forme – e anche a quei cinque milioni di disoccupati che potrebbero trovare occupazione se gli operatori economici stranieri intenzionati a investire in Italia non fossero bloccati dal farraginoso diritto del lavoro oggi in vigore. E che cosa in particolare disturba quei potenziali investitori? La normativa sui licenziamenti, stabilita dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970: «...il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento (...) o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo (…), ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro». Questo articolo, che assegna alla magistratura, cioè a un terzo, la prerogativa di decidere se un licenziamento è giustificato o no e soprattutto di reintegrare nel posto di lavoro il dipendente licenziato quando non ci sia una valida giustificazione, impedirebbe all’investitore di determinare il severance cost (tradotto pudicamente con “costo di un aggiustamento industriale” o più brutalmente “costo di un ridimensionamento dell’organico”).

 

Articolo che sarebbe tra l’altro all'origine di quella job property (regime di inamovibilità) di cui godrebbe appunto la metà dei lavoratori, quelli di serie A, i privilegiati, e sarebbe dunque la causa indiretta della precarietà a cui sono consegnati tutti gli altri. Occorrerebbe perciò togliere di torno il giudice incominciando col non applicare l’articolo 18 a tutti i nuovi assunti e assicurare così un polmone di flessibilità alle imprese, che sarebbero incoraggiate a investire.


Chiamano burocrazia i diritti dei lavoratori e tutto ciò che disturba il conseguimento dell’utile. Si dovrebbe invece custodirla gelosamente quella burocrazia, perfezionarla ed estenderla. È una delle cose più belle che esistono in Italia, più del Palazzo Ducale di Venezia e della Piazza del Campo a Siena.

 

Pubblicato il 

20.06.13

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