Pare che il detto “canta che ti passa” abbia la sua origine dalle trincee della Grande Guerra. Qualche povero alpino costretto a confrontarsi con quell’inferno di fango e di gelo (dove persino gli escrementi della truppa galleggiavano perché chi usciva diventava subito un bersaglio) deve aver iscritto sulla parete di una dolina carsica questo semplice motto: “Canta che ti passa”. Chi non l’ha ripetuto in un momento difficile sul lavoro o toccato dall’angoscia? Nel 1914-18 fra i contadini e gli operai costretti ad arruolarsi erano certo presenti anche canti di radicale protesta, ma la più dura repressione era pronta a scatenarsi. Un muratore di Bergamo fu condannato a sei anni di carcere perché fu trovato a cantare a squarciagola nelle vie del suo paese “Gli assassini dei signori / han voluto far la guerra / e noialtri tutti a terra / e loro a spasso per la città. / Lì ci mandano al macello / tutti i signori stanno a guardare / e noi altri ci tocca andare / in quei monti che son lassù. / Or si sa che questa guerra / non è fata per vantaggio, / loro a posta l’han fatta / per distrugger la gioventù…”.


Tuttavia, al potere non bastava reprimere e zittire ogni spontanea espressione di controcultura, esso in quegli anni di nascita della modernità capiva sempre meglio che era necessario anche organizzare il consenso, proponendo ad esempio un repertorio di cori e canti disciplinato, da usare sia come collante e farmaco ideologico delle truppe al fronte, sia come strumento di propaganda e ipnosi sociale nella nazione.


Qui si trattava insomma di far cantare anche per  cominciare a non lasciar più pensare... Anche la stampa era chiamata a produrre consenso, veicolando immagini eroiche dei combattenti, come quelle delle celebri copertine della Domenica del Corriere, legate all’icona del milite eroico in cui era escluso qualsiasi riferimento alla dimensione sempre più tecnica e massificata della guerra, dove era bandita – come del resto nelle coeve produzioni per il cinematografo – qualsiasi rappresentazione realistica e veritiera della grande carneficina. Pure nell’ambito della letteratura e del pensiero filosofico furono assai rare le voci dissonanti rispetto alla grande retorica dell’unità della nazione. Un filosofo destinato a occupare le leve del potere durante il fascismo, Giovanni Gentile, pubblicò nel 1917 un libro dal titolo emblematico, Guerra e Fede, impegnandosi a dimostrare che «da questo gran lavacro di sangue si svilupperanno delle grandi forze morali per tutta l’ umanità e ne deve uscire un gran bene». La guerra, da lui come pure da molti letterati, era vista come un processo grazie al quale la nazione avrebbe raggiunto la sua superiore unità, e addirittura come una manifestazione della Ragione nel suo procedere verso l’Universale e l’Assoluto.


A fronte di essi, fu un filosofo (per metà anche ticinese), Giuseppe Rensi, a pubblicare nel 1919 un libro assai dissonante, diverso sin dal titolo, Lineamenti di filosofia scettica, e nel quale egli (dapprima interventista) sosteneva che la guerra aveva reso del tutto impossibile parlare del  darsi di una ragione unitaria e del suo progresso, e che essa aveva piuttosto dimostrato che la pretesa all’Assoluto era una sorta di maschera sotto la quale le diverse nazioni  ponevano i loro interessi, ideologizzati di volta in volta come gli interessi di una sovranità nazionale condivisa. La guerra andava insomma riconosciuta come una ciclopica imposizione di realtà, tale da far svanire e sbugiardare la “canzonetta” neo-idealistica dei filosofi ufficiali, sempre protesi ad alterare ottimisticamente la realtà. Ma si trattava dell’opera di un minore, di uno scettico, a sua volta certo non privo poi di inciampi ed errori (anche e soprattutto dopo il ’18), e che sarebbe stato in ogni caso più facile far sparire dai libri di testo. L’industria culturale, che qualche decennio più tardi si sarebbe imposta un po’ ovunque con il trionfo dei mass-media, avrebbe poi articolato di continuo, a suo modo, quel “Canta che ti passa”, inscrivendo entro le sue leggi, oltre la filosofia, anche la politica e rendendo quasi del tutto esplicito che a dover essere escluso è sempre più l’esercizio del pensiero privo di false promesse e bugiarde armonie.

Pubblicato il 

26.03.14

Edizione cartacea

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