Finanza e diseguaglianza

Il 15 settembre 2008 l’allora quarta banca d’affari americana, la Lehman Brothers, fallisce sotto il peso di 613 miliardi di dollari di debiti. Gli scatti dei suoi ex dipendenti mentre escono dal lussuoso palazzo di Manhattan con le scatole di cartone diventeranno l’immagine simbolo dello scoppio della bolla dei mutui subprime, uno dei tanti frutti avvelenati della finanza speculativa tanto in voga a inizio secolo. Seguiranno sfratti, licenziamenti, fallimenti, risparmi bruciati e povertà diffusa per milioni di cittadini su scala planetaria.

Per scongiurare il crollo del sistema capitalista globale, si susseguono gli interventi dei vari governi coi soldi pubblici. La collera popolare contro il sistema finanziario e i suoi principali responsabili si respira ovunque, i politici promettono sanzioni esemplari e drastiche misure. A soli dieci anni di distanza, di quella rabbia e di quelle promesse, resta un ricordo sbiadito. Per riflettere su quell’avvenimento che pareva destinato a segnare una svolta epocale, vi proponiamo un’intervista a Sergio Rossi, professore di macroeconomia ed economia monetaria all’Università di Friborgo, con cui faremo un bilancio della crisi, le sue conseguenze e gli effetti dei correttivi apportati, riflettendo infine su delle possibili prospettive per il futuro.

Professore Sergio Rossi, siamo finalmente usciti dalla crisi del 2008?
Gli effetti maggiori della crisi finanziaria sembrano apparentemente scomparsi, ma ci sono dei potenziali enormi per una nuova grande crisi perché le banche centrali hanno inflazionato la massa monetaria in maniera preoccupante per la stabilità finanziaria. Per quel che riguarda invece la crisi economica, le sue conseguenze sono ancora chiaramente presenti, sul mercato del lavoro soprattutto. Le piccole e medie imprese, in Ticino e nel resto della Svizzera, faticano a vendere sia nei mercati esteri sia in quello interno a causa del franco forte. Non solo le famiglie acquistano all’estero perché hanno meno soldi, ma pure le imprese preferiscono rifornirsi fuori dal Paese. A dieci anni dal fallimento di Lehman Brothers è grave che l’economia sia ancora in uno stato così drammatico e la finanza profondamente fragile, nonostante i proclami dei politici al governo.
Eppure sostenevano di aver preso i giusti correttivi, tanto che i banchieri oggi si lamentano delle troppe regole che strozzano il mercato.
Le banche hanno l’obbligo di avere maggiori fondi propri e maggiore liquidità e quelle importanti sul piano sistemico hanno dovuto scrivere un “testamento”, ossia come saranno preservate le loro attività di rilevanza sistemica in caso di fallimento. Questi correttivi inducono a pensare che i problemi siano stati risolti, ma è solo un’illusione. Se a una persona sono chiesti dei fondi propri del 20% per accedere a un’ipoteca, agli istituti bancari viene chiesto meno del 20% di fondi propri per svolgere delle operazioni finanziarie, che a differenza delle ipoteche non hanno una copertura reale consistente. Siamo dunque in una grande bolla finanziaria, con l’illusione che tutto vada al meglio, ma in realtà la situazione è molto precaria e al primo scossone geopolitico il castello di carta crollerà.
Siamo in tempo per bloccare la prossima grande crisi?
Si dovrebbe dirottare gran parte della liquidità iniettata dalle banche centrali verso la spesa pubblica. Ci sono enormi bisogni d’infrastrutture pubbliche, d’investimenti nella sanità, nella sicurezza (anche sociale) e in molti altri settori. Purtroppo l’ideologia dominante vuole ridurre la spesa pubblica per diminuire le imposte dei contribuenti benestanti. In tal modo mancheranno ancora più risorse allo Stato. Tutto ciò mi porta a essere molto pessimista per il futuro, perché non esiste una coscienza politica per invertire la rotta.
Perché le alternative fanno così fatica a emergere?
Le nuove generazioni, non avendo vissuto i “Trent’anni gloriosi” dopo la Seconda guerra mondiale, non conoscono le alternative di politica economica. Nelle facoltà d’economia del mondo intero, Svizzera compresa, s’insegna che il mercato – essendo composto da numerosi attori che interagiscono tra loro con la domanda e l’offerta – sia portato a generare una situazione ottimale per tutti. La fede nel mercato s’impone così tramite il pensiero unico.
Ci dicevano che l’opposizione capitale-lavoro era superata, poiché diventando tutti azionisti saremmo diventati tutti più ricchi. Non ci saremmo neanche più dovuti preoccupare della vecchiaia, perché grazie al rendimento del capitale del secondo pilastro in Borsa, le pensioni sarebbero state dorate. Che cosa è rimasto ai lavoratori di tutto ciò?
È rimasto lo sconforto, la rabbia, oltre alla delusione per l’incapacità della sinistra di costruire un’alternativa. Questa grande frustrazione è uno dei motivi per cui le persone oggi votano la destra nazional-populista.
La ripartizione della ricchezza tra il capitale e chi lavora si è modificata in questi 10 anni?
Dipende. Se la consideriamo dopo l’intervento dello Stato, ossia la ridistribuzione della ricchezza tramite le imposte e i sussidi pubblici, la situazione è grosso modo identica. Se invece analizziamo la distribuzione del reddito prima dell’intervento statale, si nota l’aumento del numero di persone del ceto medio-basso che faticano ad arrivare alla fine del mese. Inoltre, si assiste a un’aspirazione verso l’alto del reddito, dove la meritocrazia non è più il criterio della distribuzione, ma lo sono i rapporti di forza favorevoli al padronato, che impone salari al ribasso non negoziabili.
Quali soluzioni intravede per attenuare la diseguaglianza sociale ed economica?
Il reddito di base incondizionato è l’alternativa su cui prima o poi la politica dovrà chinarsi. Si tratta di un reddito che consente alle persone di avere un minimo vitale, grazie al quale i giovani avranno la possibilità di lanciarsi in attività imprenditoriali, gli studenti potranno pagarsi gli studi senza dover fare dei lavoretti; sarà anche importante per chi si occupa della casa, dei familiari, degli invalidi e così via. Tutto ciò farà bene alla società, oltre che all’economia, rendendola meno litigiosa e più stabile economicamente. Ciò consentirà alle persone di spendere più serenamente, alimentando il circuito economico. Naturalmente tutto ciò dovrà essere finanziato con una fiscalità innovativa.
E per quel che concerne il lavoro?
Einaudi, non di certo sospettabile di essere sinistroide, aveva coniato lo slogan “lavorare meno per far lavorare tutti”. Il progresso tecnologico ci consentirebbe di avere settimane di tre giorni lavorativi e il resto impiegarlo in diversi altri modi, non forzatamente improduttivi. Ad esempio si potrebbe tradurre in pratica un altro slogan oggi tanto in voga, cioè “conciliare lavoro e famiglia”. Il progresso tecnico dovrebbe permettere di stare tutti meglio, non solo di arricchire chi è già molto ricco senza alcun merito particolare.

Pubblicato il 

12.09.18
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