Non è mai scongiurato il rischio – particolarmente accentuato se si vive una realtà periferica come quella ticinese – di perdere di vista quello che succede al di fuori della porta di casa, soprattutto se ostinatamente si volge lo sguardo solo all’interno dei propri perimetri geografici e mentali. Così ad esempio le polemiche estive su un premio a un celebre regista al Festival del film di Locarno hanno fatto sì che a pochissimi sia giunta la notizia della condanna a cinque anni di carcere della regista iraniana Manhanz Mohammadi, che da tempo lotta per il riconoscimento dei diritti delle donne in Iran, e che è stata arrestata nello scorso mese di giugno per la quarta volta in cinque anni.

 

La più lungimirante Venezia ha ricordato la vicenda destinando simbolicamente alla regista, per tutta la durata del suo Festival, una sedia vuota tra i giurati, così come una sedia vuota è stata dedicata al suo collega ucraino Oleg Sensov: a dimostrazione che l’impegno a zittire la voce libera della cultura è identico sotto soli diversi. Il silenzio pressoché totale sulla vicenda di Manhanz ci ricorda anche una cosa ovvia: e cioè che un fatto, per quanto grave sia, non diviene tale se non se ne ha notizia, e che per permettere a un fatto di assurgere al grado di notizia – ed essere dunque percepito da un numero di persone più o meno ampio – esso deve assumere espressioni simbolicamente efficaci. Senza una sedia vuota su un palco, il buio su Manhanz sarebbe probabilmente sceso anche a Venezia; senza una giacca abbandonata vista in mare, una donna imprenditrice non avrebbe deciso di armare una barca-vedetta privata per salvare molti profughi naufragati (www.moas.eu).


Forse in Ticino manca anche questo, nell’aprire gli occhi su realtà che restano negate: un’immagine simbolicamente efficace, che squarci il velo del misconoscimento della umanità reale delle persone che arrivano da noi come profughi. Non so quale possa essere questa immagine, se quella dei richiedenti l’asilo che sistemano i sentieri di montagna insieme con gli operai locali alla capanna del Monte Bar, o quella dei bambini che hanno frequentato con le loro mamme i momenti di socializzazione che organizziamo con il progetto Estate Insieme, o ancora quella della famiglia afghana che, insieme con i cuochi di un ristorante nel Mendrisiotto, ha preparato un paio di settimane fa una buonissima cena di solidarietà a cui hanno partecipato oltre cento persone. Dare un nome e un contorno ai volti indistinti che popolano le nostre strade è una sfida che ci interpella tutti. Perché tutti sappiamo, o dovremmo sapere, che la dignità passa attraverso il riconoscimento dell’unicità e dell’eccezionalità di ognuno: questo ci ricordano con forza quella sedia a Venezia, quella giacca nel mare.

Pubblicato il 

25.09.14

Edizione cartacea

Rubrica

Nessun articolo correlato