Rapporto di lavoro informale, salario irrisorio, nessun contributo sociale e nessuna assicurazione contro malattie e infortuni, niente ferie pagate, nessuna garanzia del posto e orari di lavoro estremamente flessibili. La maggior parte delle donne dell'Est Europa che accudiscono gli anziani e i malati svizzeri al loro domicilio hanno il profilo di lavoratrici precarie. Si sa che il loro numero è in costante aumento, ma mancano cifre e statistiche ufficiali. Anzi: il fenomeno, a differenza di quanto accade in Germania e in Austria, da noi viene praticamente ignorato, quasi fosse un tabù.

La conoscenza di alcuni casi (come quello che raccontiamo a parte) consente comunque di farsi un'idea di quanto stia accadendo in Svizzera, mentre ulteriori interessanti elementi di valutazione emergono dalle ricerche della sociologa zurighese Sarah Schilliger, la quale sta studiando il fenomeno delle lavoratrici domestiche provenienti dai paesi dall'Europa orientale nel quadro di un lavoro di dissertazione presso l'istituto di sociologia dell'università di Basilea. Le ricerca non è ancora ultimata, ma è già possibile tracciare un profilo piuttosto preciso di questa particolare forma d'immigrazione, che si manifesta entro le mura domestiche e che pertanto è poco visibile.
Le sue protagoniste sono di regola donne ultra quarantacinquenni con una solida formazione (spesso di livello accademico) che decidono di lasciare temporaneamente il loro paese di origine a causa dell'alto tasso di disoccupazione e dei bassi salari, allo scopo di assicurare una migliore qualità di vita alla propria famiglia nonché una buona formazione ai figli. In Svizzera però queste lavoratrici non sono richieste per le loro conoscenze professionali ma per le loro "doti naturali" di donne capaci di svolgere quello che gli inglesi chiamano in gergo "care-work", un lavoro che ne comprende tre ("caring, cooking, cleaning", cioè "curare, cucinare, pulire") e che è richiesto prevalentemente dalle persone anziane e malate.
Di regola praticano una sorta di "migrazione pendolare": lavorano un paio di mesi in Svizzera, poi rientrano al loro paese per qualche tempo e in seguito tornano da noi, quasi sempre nella stessa economia domestica. Questo andirivieni, indotto dal loro statuto di lavoratrici informali e facilitato dalla suddivisione del lavoro con altre migranti, permette loro di proseguire la vita nel paese d'origine nonostante le difficili condizioni economiche. In sostanza questa forma di "migrazione transnazionale" (come viene definita dai ricercatori) non è dettata dalla volontà di lasciare il proprio paese ma di rimanervi.
Il fenomeno è reso possibile da reti di collegamento transnazionali i cui attori possono trovarsi in Svizzera come nel paese d'origine: parenti e conoscenti che già lavorano all'estero, agenzie di "collocamento" su internet, così come contatti personali diretti con famiglie svizzere che hanno parenti bisognosi di cure, le quali spesso si scambiano informazioni e indirizzi di queste "ragazze alla pari per senior".
Questo meccanismo informale gioca un ruolo fondamentale poiché la legislazione svizzera in materia d'immigrazione, secondo la ricercatrice basilese, «non lascia praticamente alcun margine di manovra per reclutare e impiegare in modo formale e legale queste lavoratrici». Inoltre, «ai datori di lavoro questa via risulta meno onerosa e dunque più conveniente dal punto di vista economico», spiega Sarah Schilliger, che da due anni osserva il fenomeno a diretto contatto con queste migranti nel tentativo di capire «la loro vita tra due mondi». «Tutte le donne con cui sono venuta in contatto -argomenta la sociologa zurighese- percepiscono un salario ampiamente al di sotto dei 3 mila franchi mensili, diciamo tra i 1.600 e i 2.200 franchi per essere a disposizione del datore di lavoro praticamente ventiquattro ore su ventiquattro. Una condizione che non potrebbe essere inserita in nessun contratto d'impiego regolare».
Storicamente come si è sviluppato il fenomeno in Svizzera?
«La tendenza all'irregolarità era già ben presente prima dell'entrata in vigore degli accordi di libera circolazione con i Paesi dell'Europa dell'Est, ma successivamente, complice la scarsa efficacia, soprattutto in questo particolare settore economico, delle misure accompagnatorie contro il dumping sociale e salariale, si è addirittura rafforzata. Il fenomeno è però anche fortemente legato ad un esponenziale aumento della domanda».
E come si spiega tale aumento?
«Vi sono diverse ragioni. Il numero di persone bisognose di cure a domicilio cresce a causa dell'invecchiamento della popolazione, ma soprattutto dei cambiamenti sociali in atto: le famiglie sono sempre meno numerose (le economie domestiche di tre generazioni sono passate dal 20 del 1970 al 3 per cento del 2000) e ad accudire i genitori anziani e malati oggi ci sono di regola solo uno o due figli, che oltretutto, in seguito dell'accresciuta mobilità, vivono spesso lontano. È cambiato poi il ruolo della donne, un tempo casalinghe e oggi lavoratrici (il 70 per cento contro il 20 di quarant'anni fa)».
E nel contempo la cura degli anziani e dei malati viene sempre più delegata alla famiglia...
«Anche nella cura degli anziani -come in altri settori della politica sociale- le politiche di austerità e di privatizzazione giocano un ruolo: per risparmiare nella sanità i malati vengono tendenzialmente dimessi dagli ospedali ancor prima di essere guariti, il che di fatto equivale al trasferimento al privato di compiti che un tempo erano del pubblico. Alla loro assistenza devono così provvedere i parenti (supportati da servizi non-profit come Spitex che offrono cure ambulatoriali ma che oggi tendono sempre più a limitare i costi e dunque la loro paletta di prestazioni), organizzazioni private o le badanti. Le alternative non sono molte».
Quindi in futuro la richiesta di badanti è destinata a crescere ancora?
«Lo si può affermare con certezza. Oggi si calcola che in Svizzera vi siano 147 mila anziani bisognosi di cure a domicilio, ma in futuro saranno molti di più, visto che nei prossimi quarant'anni, secondo l'Ufficio federale di statistica, la popolazione degli ultra 65enni crescerà del 68 per cento e gli anziani tendono a posticipare sempre più il trasferimento in case di risposo».
Ritiene che il fenomeno continui ad essere ignorato o considerato tabù?
«Quando due anni fa iniziai ad occuparmene, la gente mi guardava in modo strano, mentre oggi noto maggiore informazione e interesse. Il crescente bisogno di queste figure professionali ci obbliga del resto ad agire per migliorare la loro collocazione sociale e per sviluppare modelli alternativi di organizzazione sociale delle cure a domicilio, come potrebbero essere per esempio delle "cooperative di cura pubbliche"».

La storia di Magdalena

Lavora praticamente ventiquattro ore su ventiquattro e guadagna 1.800 franchi al mese, da cui vengono dedotte le spese telefoniche e per Internet che utilizza per tenere i contatti con i familiari e che le devono servire anche per pagare l'assicurazione malattia e i contributo sociali nel suo paese. È la storia di Magdalena Rutkowska, economista polacca, 53 anni, da qualche tempo alle dipendenze di una 91enne basilese, colpita da demenza e costretta a letto nel suo appartamento nel centro di Basilea. Lo fa per finanziare gli studi dei suoi tre figli, che va a visitare ogni tre mesi quando il suo incarico viene rilevato da una concittadina.  La giornata lavorativa di Magdalena Rutkowska è senza fine: spesso le capita di alzarsi più volte durante la notte per occuparsi dell'anziana signora, che non si regge più sulle sue gambe e che dunque va seguita ventiquattro ore su ventiquattro. L'unico aiuto per Magdalena è dato dagli operatori di Spitex che vengono a casa due volte al giorno. Loro si occupano però solo degli aspetti curativi. Tutto il resto è competenza della badante: fare la spesa e il bucato, stirare, preparare i pasti, pulire la casa, fare compagnia all'anziana, aiutarla a vestirsi, ad andare a letto e imboccarla. È vero: Magdalena Rutkowska risparmia sull'affitto, ma deve di fatto rinunciare al tempo libero e alla sua privacy.  Per 1.800 franchi al mese lordi.

Attendendo il salario minimo

Sono lavoratrici invisibili perché operano nell'ambiente discreto delle economie domestiche, dove fanno le pulizie, lavano, stirano, accudiscono bambini, malati o anziani. Nessuno sa quante sono esattamente, ma è risaputo che la maggior parte di loro sono straniere, non hanno un contratto e guadagnano poco, anzi pochissimo. Secondo uno studio del 2008 dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), la Svizzera figura (insieme a Cina, Iran, Pakistan e Arabia Saudita) tra i Paesi in cui i salari del personale domestico vanno considerati «indegni». In questi mesi si stanno però gettando le basi per correggere la situazione attraverso l'introduzione di salari minimi, fissati a livello nazionale in un "contratto tipo" attualmente all'esame della Commissione tripartita.

Il sindacato Unia stima che nel settore siano impiegate circa 125 mila persone a tempo pieno (più del 90 per cento donne) e che una buona parte di loro lavora in nero. «Si tratta di una valutazione che deriva dall'analisi di un insieme di dati forniti da vari studi sul lavoro nero, sull'impiego di migranti e sui sans-papiers», spiega Vania Alleva, membro della direzione nazionale di Unia sottolineando la preoccupazione per un fenomeno «indubbiamente in crescita», come con-
fermano le sempre più frequenti segnalazioni che giungono al sindacato. Segnalazioni che riguardano soprattutto i salari corrisposti, che in taluni casi toccano il fondo di 1.200 franchi mensili per un impiego al cento per cento!
La campagna informativa lanciata dalla Segreteria di stato dell'economia (Seco) parallelamente all'entrata in vigore, il 1° gennaio 2008, della nuova legge federale contro il lavoro nero, ha spinto una parte dei datori di lavoro (pochi in Ticino) ad annunciare le loro collaboratrici domestiche agli Uffici cantonali dei contributi. Ma gli sforzi devono proseguire, annota Vania Alleva: «L'emersione di questi casi è positiva perché contribuisce a ridurre il lavoro nero, ma il rischio di dumping salariale rimane alto se non si fissano dei minimi». «Capita infatti che un datore di lavoro assicuri socialmente la lavoratrice però poi si riprenda i contributi versati deducendoli dal salario. È dunque importante giungere ad un contratto tipo a livello nazionale che fissi un salario di forza obbligatoria».
Esclusa l'ipotesi di stipulare un contratto collettivo di lavoro per mancanza di una controparte (non esiste infatti un'organizzazione padronale che difende gli interessi dei datori di lavoro delle economie domestiche), l'unica soluzione è quella di un "contratto tipo" o Contratto normale di lavoro (Cnl): «È una delle rivendicazioni che Unia aveva posto nell'ambito del dibattito sulle misure accompagnatorie all'accordo sulla libera circolazione con l'Unione europea, a partire dalle conclusioni di uno studio della Seco del 2007 secondo cui il settore delle economie domestiche è quello maggiormente colpito dal dumping salariale dopo l'edilizia». Ora, attraverso questa soluzione (i cui punti cardine sono stati elaborati da un gruppo di esperti istituito dalla Seco e di cui faceva parte anche la nostra interlocutrice, oltre che rappresentanti del padronato ed economisti indipendenti) si sfrutta, per la prima volta a livello nazionale, quella misura accompagnatoria che consente, di fronte al fenomeno del dumping, di dichiarare di obbligatorietà generale i salari minimi previsti dai contratti tipo. L'importanza di questo contratto tipo, che dovrebbe entrare in vigore verso la metà dell'anno prossimo, è dunque «duplice», commenta Vania Alleva: «si tutelano le condizioni di lavoro delle lavoratrici in modo concreto ma si dà anche un segnale politico chiaro». La proposta uscita dal gruppo di lavoro prevede «salari che permetterebbero una reale lotta al dumping. Spero che la commissione tripartita ne tenga conto nell'elaborare la proposta definitiva da sottoporre al Consiglio federale».
Poi, una volta in vigore il contratto, le commissioni tripartite cantonali avranno il compito «non semplice» di vigilare sull'applicazione dei salari minimi «in un settore che rimane a rischio e precario», sottolinea la dirigente sindacale, auspicando «una campagna d'informazione adeguata all'indirizzo di datori di lavoro e lavoratori» e promettendo anche l'impegno di Unia: «Lavoreremo in particolare con i nostri associati e con le organizzazioni di migranti, perché in questo particolare settore il contatto con i salariati non può avvenire sul posto di lavoro, ma nei luoghi di ritrovo e di socializzazione dove trascorrono il loro tempo libero».
   
Fenomeno in forte crescita in Ticino

In Ticino vengono rilasciati numerosi permessi per badanti provenienti dall'Europa dell'Est. Ad affermarlo è Curzio Guidotti, responsabile del mercato del lavoro presso la Sezione cantonale permessi e immigrazione, dove si registrano tra le cinque e le sette richieste al mese. Il fenomeno ha subito un'impennata a partire dal 2007, subito dopo l'estensione (dal 1° aprile dell'anno precedente) dell'accordo sulla libera circolazione tra Svizzera e Unione europea a otto Paesi dell'ex blocco sovietico (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria e Slovenia) e riguarda soprattutto donne polacche e ungheresi, ma ultimamente anche rumene e bulgare visto che dal 1° giugno di quest'anno l'intesa è valida anche per i loro Paesi. «Si tratta perlopiù -spiega Guidotti- di donne che hanno già vissuto l'esperienza di badanti nella vicina Italia, come si evince spesso dalle loro biografie e dal fatto che padroneggiano la lingua italiana».
Tutti i cittadini dei paesi dell'Europa Orientale sono però ancora sottoposti alle misure transitorie di protezione del mercato interno (contingenti e priorità ai lavoratori indigeni) nonché al controllo delle condizioni salariali e di lavoro previsti dalle cosiddette misure accompagnatorie contro il dumping salariale e sociale.
Il datore di lavoro, cioè la persona che necessita delle cure di una badante, deve dunque dimostrare di non essere stato in grado di reperire sul mercato interno la figura professionale desiderata. Un esercizio che risulta relativamente semplice, conferma Guidotti: «Ci rendiamo perfettamente conto che sul mercato interno (quello ticinese, svizzero ma anche quello dell'Europa dei quindici) è difficile reclutare personale che accetti di assumere il ruolo di badante ventiquattro ore su ventiquattro». Per le migranti dell'Est sono dunque grandi le chance di ottenere un permesso (di regola il primo è di tipo "L", valevole per un periodo determinato di 364 giorni ma rinnovabile). «Naturalmente -aggiunge Guidotti- a determinate condizioni: il datore di lavoro deve in particolare corrispondere un salario minimo di 2.950 franchi al mese da cui può dedurre spese per vitto e alloggio fino a 990 franchi. Egli deve pure dimostrare, attraverso un certificato medico, di non essere autosufficiente».
Da gennaio a fine ottobre di quest'anno l'Ufficio permessi e immigrazione ha rilasciato 128 preavvisi positivi, «ma è anche possibile che alcune di queste lavoratrici abbiano nel frattempo lasciato il Paese», spiega.
Difficile quantificare per contro i casi di lavoratrici in nero: l'Ufficio cantonale di sorveglianza del mercato del lavoro non ne ha mai verificati, ma da una serie di controlli effettuati sulle badanti che si sono registrate e sui loro datori di lavoro risulta che le informazioni forniteci prima del rilascio del permesso sono sempre corrette. In particolare lavorano effettivamente dove indicato, conclude Guidotti.  

Le cure domiciliari fanno gola alle società private

Il settore delle cure a domicilio è un mercato molto interessante e appetibile per le società private che offrono direttamente questo genere di servizio e per le agenzie (spesso con sede all'estero) specializzate nel collocamento di badanti provenienti in particolare dall'Est Europa.
Fra le tante che si possono trovare in internet (quasi tutte con nomi in tedesco o in inglese che evocano la casa come luogo di cura), citiamo la "Home Instead Senior Care", una società americana con più di 850 filiali in tutto il mondo che nel 2007 ha aperto la sua prima sede anche a Basilea e che oggi è già presente in dodici località della Svizzera tedesca. Attualmente Home Instead impiega circa seicento collaboratori (nella misura del 90 per cento donne) che, una volta assolta la formazione interna, prestano servizi di ogni genere alla clientela: si va dalla semplice compagnia, all'aiuto nelle faccende domestiche quotidiane, al trasporto, alla spesa fino all'assistenza ventiquattro ore su ventiquattro. Il direttore Paul Fritz non vuole rivelare il numero di clienti, ma ci fa capire che sono tanti e in continua crescita. Del resto, l'intenzione di aprire sedi, a partire dall'autunno 2010, anche in Ticino e nella Svizzera romanda dimostra quanto sia interessante il mercato svizzero delle cure a domicilio. E Fritz conferma: «La domanda è molto forte rispetto ad altri Paesi dove operiamo. Il nostro è un servizio molto gradito dagli svizzeri. Ritengo che ciò sia dovuto al fatto che la gente è abituata a standard di vita molto elevati e ha già confidenza con il servizio di cure a domicilio offerto da Spitex, con cui peraltro collaboriamo in modo molto proficuo. A questo si aggiunge il fatto che in Svizzera c'è molta ricchezza che consente di pagare questi servizi». Home Instead applica tariffe che variano, a dipendenza delle esigenze del cliente, dai 27 a 49 franchi all'ora, ma prevede pure forfait che possono arrivare fino a 12 mila franchi al mese per un servizio 24 ore su 24.
Mentre il personale di Home Instead, come ci conferma il suo direttore, viene reclutato esclusivamente in Svizzera, le agenzie di collocamento pescano forza lavoro soprattutto nell'Est Europa e creano il contatto, in particolare attraverso internet, con le famiglie svizzere interessate. È il caso per esempio dell'agenzia Mdt (che ha sede in Polonia) o del gruppo spagnolo Mc Care, che opera molto in Germania e da questo autunno anche in Svizzera.
Al di là delle difficoltà nel dare una dimensione precisa al fenomeno, è insomma sempre più chiaro che per gli operatori commerciali delle cure a domicilio la Svizzera è terra di conquista.   

Pubblicato il 

06.11.09

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