L'editoriale

Lo sciopero è l’atto finale di un processo le cui radici risalgono nel tempo. Ripercorriamo i fatti recenti. Il 15 gennaio il cambio fisso tra franco ed euro a 1,20 mantenuto artificiosamente in vita dalla Banca Nazionale per tre anni e mezzo viene abolito. Si scatena il panico nelle aziende votate soprattutto all’esportazione, con adozione improvvisata di misure a tutto campo. Nella grande maggioranza dei casi, si scarica il rischio imprenditoriale legato alla volatilità del cambio sui lavoratori, tagliando i salari o imponendo ore gratuite. Quasi sempre senza mostrare uno straccio di prova concreta di una imminente catastrofe che le giustificherebbe. Tanti, troppi, imprenditori concepiscono il dialogo come la semplice accettazione supina di quanto affermano.


A volte però si fanno i conti senza l’oste. In alcune fabbriche, i dipendenti “osano” dire no. Non un no di principio. Non sono dei pazzi suicidi. Ci tengono al loro impiego, ma non a qualsiasi prezzo. Non sono disposti a firmare cambiali di sacrifici in bianco. Vogliono vedere le cifre, capirle e poi valutare quali siano gli spazi di manovra per eventuali misure di contenimento. Controllo democratico. È il concetto sostanziale che pongono le maestranze della Exten, della Smb, delle Ferriere Cattaneo. Troppe volte sono state le vittime sacrificali di errori di manager lautamente pagati. Alle Officine Ffs e alla Trasfor gli operai hanno dimostrato di aver ragione sulla reale condizione economica delle loro imprese.


A questo mondo, non siamo tutti uguali. Nel contesto attuale, lo scopo primario dell’imprenditore (e azionista) è il profitto. Un lavoro a condizioni dignitose è per lui un aspetto gradevole ma secondario.


La crisi, l’abbandono della soglia minima del franco, fa emergere nella sua crudezza il conflitto fra interessi contrapposti. L’arricchimento personale si scontra col desiderio collettivo di un “prezzo equo” della forza lavoro.
Gli operai ci tengono alla fabbrica, i salariati alla loro azienda in senso largo. Non solo perché costretti a passarvi più tempo che coi propri cari, ma perché nella nostra società il lavoro, oltre a portare il pane, porta pure la dignità. Per questo rifiutano di essere dei numeri. Rivendicano il diritto di essere attori e non servili “collaboratori”.

Pubblicato il 

04.03.15
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