"Praga è sola" titolava la rivista Il Manifesto, nata da una costola del Partito comunista italiano. Un titolo e dei contenuti che valsero al gruppo eretico che l'aveva prodotta la radiazione dalla casa madre: si era "oggettivamente" messo fuori dal più grande partito comunista occidentale. L'eresia consisteva nel sostenere fino alle estreme conseguenze la Primavera di Dubcek e l'idea che si potesse e dovesse uscire da sinistra dagli errori e dagli orrori del socialismo reale per non essere travolti, insieme alla speranza di una società diversa condivisa da milioni di persone, dal suo crollo inevitabile. Non si poteva criticare timidamente i carri armati sovietici mantenendo in piedi tutto l'armamentario burocratico stalinista, a partire dalla deriva del centralismo democratico, denunciarono gli eretici e ne pagarono le conseguenze iniziando, in quel lontano novembre del '69, un lungo cammino solitario: per la prima volta un gruppo cacciato dalla grande casa comunista non sarebbe rifluito nella deriva dell'anticomunismo. Avrebbe continuato a criticare il socialismo realizzato, per esempio con un grande convegno internazionale a Venezia una decina di anni dopo, disertato dal Gotha del Pci che avrebbe atteso altri anni prima dello strappo di Enrico Berlinguer sulla «fine della spinta propulsiva della rivoluzione d'Ottobre».
Vent'anni dopo quel muro a est del Pci crollò rumorosamente e i mattoni da Berlino volarono fino alle Botteghe oscure, nel cuore di Roma. Nell'arco di pochi mesi il Pci avviò un processo di dissoluzione che avrebbe rimosso persino le diversità togliattiane e poi berlingueriane che gli avevano garantito un'autonomia più di pratica che di pensiero e un fortissimo radicamento nella classe operaia e tra i ceti popolari. Dal Pci, al Pds, ai Ds, fino allo sbocco nell'indistinto mare del Partito democratico che rifiuta qualsivoglia riferimento non al comunismo, ma alla socialdemocrazia europea. Un suicidio identitario, un rifiuto della propria storia che avrebbe scoperchiato il pentolone della democrazia italiana facendola impazzire come una maionese andata a male. Il Pci non era da decenni un partito comunista ma uno straordinario presidio democratico di massa che venne meno negli anni Novanta, e ancora oggi i gattini ciechi sopravvissuti al cataclisma si chiedono come mai nel nord gli operai votino per Bossi e al sud per Berlusconi. L'infinita transizione italiana è governata da un pensiero unico senza ostacoli e alternative a sinistra.
È con amarezza, più ancora che con orgoglio, che chiudo questo sfogo ricordando come quel gruppo di eretici del Manifesto da cui quarant'anni fa è nato un giornale che avrebbe voluto salvare la sinistra italiana sia ancora su piazza. Acciaccato, bastonato, contraddittorio, senza essere riuscito a cambiare il corso della storia come capita ai grilli parlanti, ma è ancora su piazza. Con un quotidiano che continua a chiamarsi il Manifesto, sottotitolo quotidiano comunista. Forse più per dispetto e per rifiuto di confluire nel mare magnum dell'omologazione che per reale pratica comunista.

Pubblicato il 

06.11.09

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