È con rabbia e preoccupazione che sui luoghi di lavoro si guarda alla prospettata riduzione delle rendite pensionstiche, su cui il popolo svizzero si esprimerà il prossimo 7 marzo. A partire dalla testimonianza di un lavoratore e militante sindacale, cerchiamo di capire cosa questo comporterebbe per i salariati.

Quella di Orlando Patricio Sanhueza è la storia di profugo cileno giunto in Svizzera nel lontano 1982. Fuggiva dalla dittatura di Augusto Pinochet, dal regime brutale di un paese in cui l'intero sistema sociale era stato smantellato e che aveva derubato tutti i lavoratori dei loro capitali previdenziali, trasferiti in blocco alle casse pensioni private. Il caso volle che in quegli anni la questione delle pensioni occupasse il dibattito politico anche in Svizzera, dove ci si apprestava a introdurre, nel 1985, l'obbligatorietà delle previdenza professionale.
All'epoca, racconta Sanhueza, «ci capivo ben poco e non mi interessavo più di tanto, anche perché avevo altre priorità, come quelle di imparare l'italiano e di integrarmi nella società». Oggi Orlando Sanhueza, 48 anni, è un cittadino svizzero, sposato con un figlio, da ventidue anni lavora in una ditta ticinese come programmatore di macchine industriali di alta precisione ed è un militante sindacale, presidente della sezione Sottoceneri di Unia. A differenza di un tempo, il sistema pensionistico svizzero lo conosce bene. Anzi, la questione è finita al centro dei suoi pensieri quotidiani, perché la prospettata nuova riduzione del tasso di conversione minimo per gli averi del secondo pilastro lo preoccupa fortemente e lo stimola a impegnarsi in prima persona nella campagna referendaria in vista della votazione popolare del 7 marzo.
«Non ricordo in tanti anni un attacco così frontale alle assicurazioni sociali», afferma Sanhueza, sottolineando come ormai il tema delle pensioni sia diventato oggetto di discussione sui luoghi di lavoro, dove oggi sono i «sentimenti di paura, di rabbia e talvolta di impotenza» a prevalere. Le ragioni sono facilmente spiegabili: «Il salariato, già costantemente sotto pressione, sul posto di lavoro, non vede più alcuna prospettiva sicura per la sua vita dopo i 65 anni: le rendite pensionistiche prospettate si assottigliano costantemente e l'incertezza sulla durata della vita lavorativa aumenta: oggi un 45enne, di fronte agli attacchi in atto allo stato sociale, si immagina di andare in pensione a 67 o a 68 anni».
La riduzione dell'aliquota di conversione dal 6,8 al 6,4 per cento non è in effetti che l'ennesimo capitolo di un processo di smantellamento del secondo pilastro avviato dopo la crisi borsistica d'inizio secolo. Essa va in particolare a sommarsi a un primo ritocco (dal 7,2 al 6,8) e alle ripetute riduzioni del tasso minimo di remunerazione del capitale di vecchiaia, passato dal 4 per cento del 2003 al 2 per cento attuale. Riduzioni che pure vanno incidere sull'entità del capitale accumulabile con i contributi versati mensilmente da lavoratori e datori di lavoro durante la vita attiva.
Ne sa qualcosa anche Orlando Sanhueza: «dieci anni fa ho calcolato che al momento di andare in pensione, nel 2027, mi sarei ritrovato con un capitale di 347 mila franchi. Oggi, nonostante il mio salario sia aumentato del 10-12 per cento, posso sperare in un capitale di soli 317 mila franchi». E con la riduzione del tasso di conversione, Sanhueza perderebbe altri soldi: la sua rendita pensionistica diminuirebbe ulteriormente rispetto alle aspettative attuali. «Il furto ai miei danni aumenterebbe a circa 29 mila franchi».
In lui non può che prevalere un sentimento di grave ingiustizia e di rabbia nei confronti delle assicurazioni private che gestiscono le casse pensioni: «Questi signori delle grandi compagnie assicurative investono, bene o male, i nostri soldi e quando accusano delle perdite a causa di investimenti scriteriati dettati da un'infinita sete di profitto, presentano la fattura ai salariati. Ed il governo e il Parlamento li assecondano con decisioni come la controriforma della Legge sulla previdenza professionale in votazione il 7 marzo». La situazione è curiosa, commenta sarcastico il nostro interlocutore: «In alcuni paesi arabi a chi ruba viene tagliata la mano e da noi a chi ruba si dà una mano!».
Per i salariati, giovani e meno giovani, oggi l'unica certezza è l'incertezza: «Le mie prospettive sono nere. Sono pessimista. –conclude Orlando Patricio Sanhueza- Non so come potrò far fronte, una volta raggiunta la pensione, alla continua crescita del costo della vita, all'esplosione dei premi di cassa malati, all'impennata delle pigioni. Avanti di questo passo molti pensionati non potranno più permettersi di vivere in Svizzera e saranno costretti a lasciare il loro Paese». Questo dopo aver lavorato una vita con l'illusione che la rendita pensionistica, insieme all'Avs, garantisca la continuazione del tenore di vita abituale, come tra l'altro impone la Costituzione svizzera.

Pubblicato il 

12.02.10

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