Mangiano, vestono, parlano e lavorano come gli altri eppure sono tanto diversi per statuto lavorativo e contratto di lavoro. Come dimostrato dal caso Rsi, possono rappresentare una percentuale molto alta rispetto ai regolari collaboratori che dispongono di un normale contratto aziendale. Costituiscono “l’asso nella manica” dei Ceo, tutti impegnati a rendere snella e flessibile la loro azienda onde garantire efficienza, efficacia e redditività richieste dagli azionisti o proprietari. Chi sono, chi sono? Come cantava Gaber: sono i “services providers”, i collaboratori interinali, le persone che lavorano su chiamata, quando l’azienda necessita. Dal punto di vista aziendale quella dell’outsourcing di personale è la “mossa vincente”: perché consente flessibilità, d’azione, di ridurre costi fissi, di contenere l’aspetto amministrativo e gestionale (colui che non lavora come richiesto non viene più chiamato).

 

Per il collaboratore implicato la percezione della situazione può esser ben diversa: taluni la trovano “fun”, sono i più giovani, i single, senza troppe esigenze, si accontentano di avere un job che consente loro di vivere; le cose cambiano per coloro che hanno impegni sociali, di famiglia, o la vogliono mettere su, che desiderano guardare il futuro con un minimo di sicurezza. L’attesa della chiamata che dà lavoro e avere un reddito è certamente salvifica, ma estenuante: obbliga a disdire impegni assunti, o impedisce di avere una programmazione della propria vita e di quella con la famiglia. A lungo andare spacca l’individuo, nella sua motivazione, energia, non raro v’è l’insorgere di malattie psicosomatiche. Chi vive la situazione sa che deve dare il meglio di sé in qualsiasi momento, anche quando la salute, o la situazione famigliare cela problemi; condizione necessaria per mantenere aperta la possibilità di essere chiamati nuovamente; magari nella speranza di riuscire ad ottenere uno statuto di impiegato regolare. Per i collaboratori ufficiali, garantiti dal contratto, un monito a restare prestanti, per non scivolare nella condizione del collega interinale.


A lungo andare il ricorso al lavoro interinale oltre che essere pernicioso per coloro che lo vivono (spremuti come arance, sottomessi al comando della dedizione assoluta, come “moderni schiavi”) rappresenta una perdita sia per l’azienda (calo della coesione, aumento delle tensioni, diffidenze, collaborazione sminuita, assenteismo ma anche perdita di competenze) sia per la società (costi sociali, perdita di slancio innovativo). Purtroppo nel mainstream dominante al livello di management, nonostante l’uso di nuove parole, persistono vecchie concezioni che prediligono modalità prescrittive piramidali, top down in cui l’individuo deve adattarsi, seguire le direttive, impegnandosi al massimo.

Concezione che nega di fatto l’esistenza del collaboratore che ha ricevuto un'istruzione, che sa muoversi con maggior autonomia, dispone di capacità e come tale ha aspirazioni e ambizioni diverse: soprattutto e dapprima visione del futuro, implicazione nelle scelte, sviluppo professionale per migliorare le sue competenze, poi anche una remunerazione corretta. Un’azienda in un paese avanzato come il nostro potrà evolvere, restare innovatrice e qualitativa solo se valorizza e considera il capitale più prezioso a sua disposizione: tutte le persone che vi lavorano. Ma per farlo occorre percorrere altre vie e mettere in discussione gli attuali criteri ed indicatori di valutazione delle prestazioni aziendali troppo centrati su parametri contabili finanziari (in particolare l’efficienza), per adottarne degli altri in cui si consideri la resilienza (ovvero la capacità di un sistema di affrontare i cambiamenti, i problemi) non solo della singola azienda ma del sistema socio-economico e politico. Solo percorrendo tale via sarà possibile dare diritto ai “sans-papiers” aziendali e a sradicare precarietà e sfruttamento soggiacenti.

Pubblicato il 

17.02.16
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