Ci sono due termini che a commento di avvenimenti nazionali e cantonali oppure europei o americani, ricorrono spesso per voler spiegare ciò che si sta movendo o cambiando. Sono: populismo e classe media.
Populismo è diventato una parola valigia, ci si mette di tutto, dalla rivoluzione benvenuta al fascismo di ritorno.

 

In Svizzera sono definiti populisti Udc (Blocher), Lega dei ticinesi (Bignasca), movimenti di destra. Sono però stati definiti populisti anche quelli di sinistra quando hanno proposto in tempo opportuno misure di accompagnamento agli accordi bilaterali e alla libera circolazione della manodopera o un tetto definito a stipendi e bonus dei dirigenti, il salario minimo, un reddito di base universale, l’aumento delle pensioni Avs, la riforma del secondo pilastro, un servizio pubblico di fatto senza massimizzazione del profitto. Bollati con quel termine perché, demagoghi, non tenevano conto dell’economia. Ci sono quindi populisti accettabili e reiettabili (al sistema). Nella campagna per le presidenziali Usa sono stati definiti populisti sia il miliardario vincitore Donald Trump, sia il “socialista” Bernie Sanders (conquistatore dei giovani, fatto fuori dalla Clinton, considerata parte dell’establishment); tanto che, in un miscuglio assurdo, si arrivò a dire che gli elettori dell’uno e dell’altro (tutti populisti) si sarebbero fusi.


Studiosi europei o americani del fenomeno ci dicono che il populismo è costituito da tre elementi. Dal popolo (o dalla “gggente”, come si dice da noi), più saggio delle élites politiche, economiche, intellettuali. “Popolo” considerato un assieme omogeneo, buono, virtuoso per essenza, che diventa antitutto. Che vuole però ancora qualcuno che parli a suo nome, lo coltivi, lo rappresenti. Il populismo è infatti segnato dal gusto del potere carismatico, di un “leader” che sia anche autoritario (meglio se spaccone, non culturale: gli esempi ormai abbondano). Nell’esercizio del potere, sondaggi, referendum, iniziative, espressioni e accuse dirette pure violente (mai provate) e sconvolgenti, sono preferite alla democrazia rappresentativa (quella delle istituzioni, perlopiù deprecata o svillaneggiata). I populisti sono poi avversi all’ “altro”, al diverso, a maggior ragione se è un migrante; hanno quindi la preferenza nazionale come dogma (prima i nostri) e la chiusura delle frontiere come opzione, contro gli effetti della globalizzazione o per la propria sicurezza economica e personale.


Questa descrizione del populismo ha un fondamento dimostrato. Non riesce però a dare o spiegare l’essenziale. C’è innegabilmente una rabbia antisistema in ciò che definiamo populismo. Sarà confusa, incoerente, persino assurda (il populismo che si ritiene rappresentato da un miliardario!), ma bisogna partire da lì. C’è da chiedersi (alcuni giustamente se lo sono chiesto da qualche tempo, vedi La variante populista, di Carlo Formenti, ed. Derive Approdi) se la forma populista, ormai prerogativa delle varianti di destra, non sia la forma politica che la lotta di classe, abbandonata dalla sinistra, ha assunto in questa fase storica. Con le controtendenze alla globalizzazione che chiedono una chiara inversione di rotta rispetto alle scelte economiche neoliberiste degli ultimi trent’anni. Lotta di classe (ora della classe media?) e inversione di rotta che dovrebbero dar vita ad un’altra sinistra, meno imbambolata dal mercato o intrappolata dall’egemonia dei populismi di destra che di fatto le hanno abilmente sottratto filosofia e mestiere.

Pubblicato il 

06.12.16
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