Venezuela

Il Venezuela sull’orlo del baratro. Crisi economica drammatica (pil -11% nel 2016, inflazione al 700% l’anno passato e, per l’Fmi, 1.600% quest’anno), stallo politico totale, tessuto sociale a forte rischio di rottura con emergenza sanitaria e penuria alimentare, scontri e morti nelle strade, chavismo nell’angolo e destra scatenata dall’odore di una rivincita attesa da vent’anni, crescente isolamento latino-americano e internazionale.
Se nei mesi (o settimane) a venire il punto di non ritorno sarà toccato e il governo del presidente Nicolás Maduro dovesse cadere in un modo o nell’altro (ma il modo conta, eccome), sarebbe un colpo fatale per il “socialismo del XXI secolo” sbozzato negli anni ’90 del ’900 da Hugo Chávez e Fidel Castro.


Ma anche se quel punto sarà evitato, si dovrà riflettere su cosa sia stato e dovrà essere il socialismo chavista.
La spiegazione più facile e corrente dice che Chávez, morto nel 2013, era un grande leader e Maduro è un pessimo leader. Forse anche vera ma troppo manichea, incapace di mostrare le vere ragioni di fondo. Rimaste le stesse da una secolo, da quando nel 1914 il petrolio zampillò dal primo pozzo sulle sponde del lago di Maracaibo. La “semina del petrolio”, come la chiamò il presidente Rómulo Betancourt, la dipendenza dal petrolio (tuttora il 90-95% dell’export). Ossia il modello di sviluppo, il nodo gordiano che il Venezuela non ha mai sciolto. Prima dell’arrivo dell’ “Huracán Hugo” al potere, nel 1998, i successivi governi – di qualsiasi tipo e colore - avevano risolto il problema impinguando i conti correnti propri e delle rispettive élite nelle banche di Miami o Ginevra. Fu così che, incredibilmente, l’80% della popolazione del “Venezuela saudita” si ritrovò “povero”. Chávez fu solo un effetto non una causa. Con lui la spesa sociale raddoppiò: dall’11,3% del pil nel 1998 al 22,8% nel 2011.


Come dice Edgardo Lander, sociologo dell’Universidad Central de Venezuela, uno degli intellettuali più prestigiosi (ma non incondizionale) della sinistra venezuelana, la rivoluzione chavista «si è sempre appoggiata su due pilastri fondamentali: da un lato la straordinaria capacità di comunicazione di Chávez, che generò una forza sociale, e dall’altro i prezzi del petrolio che arrivarono in alcuni anni a superare i 100 dollari al barile. Quasi simultaneamente, nel 2013, questi due pilastri sono collassati. E l’imperatore si è ritrovato nudo». Nel 2015 il barile costava 28 dollari.


Al di là della evidente differenza di statura fra i due leader, il crollo simultaneo di questi «due pilastri» ha prodotto o accelerato la crisi attuale. I grandi meriti del quindicennio chavista – le politiche sociali e la redistribuzione della manna petrolifera fra gli strati più poveri, il ruolo nell’integrazione latino-americana, il concetto di “democrazia partecipativa” – sono così oscurati, adesso, dai suoi limiti – un forte personalismo carismatico e l’incapacità di formare un ceto politico in grado di succedergli, la persistenza della mono-coltura del petrolio e del modello estrattivista – su cui picchia l’opposizione interna, in cui convivono settori più o meno liberal-socialdemocratici e settori apertamente radical-golpisti, e quella esterna – da Washington, che non gli ha mai perdonato l’uscita dallo storico status di neo-colonia Usa, all’Unione Europea e ai grandi media internazionali – per decretarne il fallimento e l’emergere delle tendenze autoritarie o “dittatoriali”.


Per Lander il punto di svolta fu il 2005, nella «transizione del processo bolivariano dalla ricerca di un modello sociale distinto da quello sovietico e da quello liberal-capitalista, a un modello socialista classico e all’interpretazione del socialismo come statalismo». E in questa “conversione”, a suo giudizio, «c’è stata molta influenza politico-ideologica cubana». Forse, si potrebbe dire, il passaggio dal chavismo al post-chavismo.
Il crollo dei “due pilastri” ha portato alla guerra civile strisciante di oggi, con entrambe la parti impegnate a delegittimarsi a vicenda, accusandosi reciprocamente di tendenze dittatoriali o golpiste, incapaci di ascoltare i rari appelli alla ragione, compreso quello di papa Francesco. La destra interna e internazionale, anche quella ”liberale e democratica”, non sta con le mani in mano e fa il suo (sporco) gioco di sempre. La sinistra venezuelana resiste come ha resistito Cuba, per più di mezzo secolo, all’aggressione Usa (ma il Venezuela non è Cuba). Non è disposta a cedere. E, anche se le inchieste dicono che l’80% dei venezuelani è favorevole alla sua immediata uscita di scena, Maduro ha ancora il 20-30% di appoggio degli strati popolari. E il 20% è più dell’appoggio dei vari Macri in Argentina, Temer in Brasile, Bachelet in Cile, Santos in Colombia.


L’ipotesi più ragionevole sarebbe quella di una tregua fino alla fine del ’18, quando scadrà il mandato di Maduro e si andrà (presumibilmente) alle elezioni presidenziali. Ma in questo clima ragionevolezza e tregua non hanno spazio. E il pessimismo è d’obbligo.

Pubblicato il 

24.05.17
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