Se non si riesce ad affrontare un problema ed è giocoforza ricorrere all’ente pubblico affinché intervenga, dia delle norme, faccia da intermediario, promuova, sovvenzioni o distribuisca correttamente, da una certa parte, che è poi quella dominante, si oppongono immancabilmente (fatta eccezione quando scopre interessi propri) le solite obiezioni: stato invadente, burocrazia, strangolamento del libero commercio, spesa pubblica insostenibile, troppe tasse, fuga dei contribuenti.


Tre considerazioni, da una parte e dall’altra, si ignorano comunque spesso. La prima è che in una società complessa come la nostra occorrono sempre più persone e strutture che devono cooperare in modo efficace e duraturo se si vuole continuare a produrre, come si pretende, ricchezza umana ed economica; rimanendo però gli interessi contrapposti e conflittuali, lo Stato, che è la comunità, è spesso il ricorso ultimo inevitabile, il regolatore o l’arbitro. Non è quindi problema di “meno Stato”, ma di “quale Stato”. La seconda è che la nostra società, divenuta sensibilissima a ogni inconveniente (dagli ingorghi stradali, ai mutamenti climatici, alle crisi sociali, alla sicurezza, allo sfruttamento orripilante del territorio, alla montagna dei rifiuti) ha sempre più bisogno per funzionare di “beni pubblici” che si possono solo produrre con la spesa pubblica. La cosa che qui si finge di ignorare è che la spesa pubblica non avviene a detrimento del settore privato (connessione che invece la destra fa continuamente), ma essa diventa – per paradossale che possa sembrare – una condizione necessaria affinché il settore privato possa continuare a fare profitti. La terza considerazione è data dall’impressione che l’efficacia degli interventi pubblici nella lotta contro le ineguaglianze rimanga comunque debole oppure che tutto si risolva ancora a favorire, prioritariamente, gli interessi delle lobbies. A detrimento, ad esempio, della salute pubblica o della sicurezza nel pensionamento.


Nella salute, per i motivi che si sono detti, l’ente pubblico (Confederazione, Cantone) deve metterci mano, non se ne può fare a meno. Anche se il sistema di salute svizzero è uno tra i più liberali del mondo occidentale. Secondo un’analisi dell’Ocse, la parte dei costi per la salute direttamente assunti dalle economie domestiche svizzere (premi, franchigie) è una delle più elevate in Europa (32 per cento, contro ad esempio il 22 in Belgio, il 16 in Svezia, il 15 in Germania). Una falcidia del reddito disponibile. Ma, ciò che è più grave, un finanziamento antisociale, poiché i premi non sono proporzionali al reddito. La casse private prelevano poi spese amministrative consistenti, sino al 10 per cento (rimunerando anche generosamente i dirigenti, alle volte consiglieri nazionali loro lobbisti). Se si permettesse ad esempio a un cantone di creare questo “bene pubblico” (la cassa pubblica), si eviterebbero queste derive.


Nella previdenza vecchiaia è pure stato inevitabile mettere la mano pubblica per garantire a tutti, indistintamente, una relativa sicurezza finanziaria, fondata, come si sa, su tre pilastri (Avs con le prestazioni complementari, previdenza professionale, risparmio personale per chi ci riesce). Il guaio (lo dimostra uno studio appena uscito della BFH, Berner Fachhoschscule Gesundheit) è che le donne si trovano penalizzate, come di fatto sono penalizzate nella società per lavoro, lavoro casalingo non riconosciuto, differenze rimunerative strutturali. Le loro rendite vecchiaia risultano in media minori del 37 per cento rispetto a quelle dei maschi. Penalizzate perché madri, precarie, meno considerate nel salario e nella gerarchia. Chi potrebbe e dovrebbe rimediare a questa macroscopica ingiustizia se non lo Stato-società?

Pubblicato il 

07.06.17
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