“I capitalisti guadagnano ciò che spendono, i lavoratori spendono ciò che guadagnano”. Sembra una frase d’effetto o banale, ma non lo è. È addirittura un teorema economico formulato da un grande economista, Michal Kalecki, da cui ha preso il nome. Che c’entra e quanto può interessarci? Spesso l’economia impicca chi non è attento ai suoi più semplici teoremi. Diamone un esempio significativo.


I sindacati chiedono che la Confederazione fissi un salario minimo legale, applicabile a tutti i lavoratori come limite inferiore obbligatorio e il Consiglio federale ha risposto picche. Non è il caso: la libertà contrattuale è sufficiente a far funzionare in modo soddisfacente il mercato del lavoro. Non lo ha detto ai 430.000 salariati che guadagnano meno di 4.000 franchi al mese, a tempo pieno (di cui 140.000 titolari di un certificato federale di capacità). Proprio perché non è sufficiente decantare il partenariato sociale per farlo accettare nei fatti.


I sindacati chiedono anche ai datori di lavoro che è ora di aumentare i salari. Sia perché negli ultimi dieci anni il divario tra alti e bassi salari è aumentato in maniera abnorme, a danno di questi ultimi, sia perché a conti fatti, dedotto il rincaro, sono molti i salari che si trovano al livello del 2002, sia perché è aumentata di molto la produttività (più produzione per unità di lavoro) ma i lavoratori non ne hanno tratto beneficio (ne hanno invece ampiamente beneficiato imprese, azionisti e manager).


I datori di lavoro tendono pure a rispondere picche con due immancabili argomentazioni: non siamo ancora usciti dalla crisi e la domanda è ancora debole (esportazioni); aumentare il costo del lavoro (più salari) significa perdere in competitività (sopratutto internazionale) e quindi in posti di lavoro. È la classica zappa sui piedi.


E allora, che c’entra in tutto questo il teorema di Kalecki? Per dirla in breve: Kalecki pone logicamente l’accento sul ruolo fondamentale dell’investimento (chi ha il capitale guadagna se investe), ma insiste ancora di più sulla necessità di tener conto parallelamente della ripartizione dei redditi, in particolar modo attraverso i salari, affinché ci possano essere domanda e crescita. Quindi, è la stessa economia a imporre l’adeguamento e l’aumento dei salari reali (potere d’acquisto). Come obiettivo moralmente perseguibile (perché i lavoratori e le loro famiglie devono essere esclusi dalla spartizione della torta?), ma soprattutto come obiettivo logico, economicamente e politicamente necessario, se non ci si vuole impiccare.


I dati sulla contabilità nazionale apparsi in questi giorni sono il “come dovevasi dimostrare” del teorema. Il vero fondamentale motore della crescita dell’economia svizzera che ci ha permesso di mantenere ancora positivo il prodotto interno lordo (il famoso pil, o la ricchezza aggiunta in un anno) e di autocompiacerci come bellimbusti di fronte agli altri paesi europei malandati, è stato il consumo (la domanda) delle economie domestiche. Il consumo dipende ovviamente dal potere d’acquisto, dal salario, dal reddito da lavoro. Oppure, in carenza di quello, dall’indebitamento, che permette di mantenere ancora alto il consumo precedente ma non è sempre buona cosa e rende di più ai creditori che non ai debitori.


Perché i politici o i datori di lavoro che si piccano di sapere d’economia rifiutano troppo facilmente l’abbecedario dell’economia pretendendo magari di insegnarla agli altri? Forse anche la risposta è troppo facile.

 

Pubblicato il 

11.09.13

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