Ci sono due atteggiamenti che si può solo definire assurdi, ma che fanno la nostra realtà politica.
Il primo è quello di fermarsi sempre sulle conseguenze senza mai risalire alle cause. Prendiamo ad esempio un tema che va per la maggiore: l’indebitamento pubblico. Ci si accanisce sulla spesa – che va ridotta falcidiando qua e là, preferibilmente sul sociale, ritenuto per definizione oneroso e improduttivo – o sui costi del lavoro, sempre eccessivi, o sulle entrate, insufficienti, che non vanno incrementate con le imposte perché, per assioma inviolabile, fanno fuggire i ricchi. La causa essenziale dell’aumento del debito è invece la riduzione della crescita: o per un’economia troppo debole, con scarso valore aggiunto oppure per un’ideologia economica che favorisce l’accumulo di ricchezza e ne penalizza la ridistribuzione con politiche discriminanti, da quella fiscale a quelle sul lavoro. Se si partisse dalle cause, operazione più impegnativa, il debito, la spesa, le entrate, che sono conseguenze, sarebbero visti altrimenti: indurrebbero innanzitutto alla ricerca e al cambiamento delle cause e non punterebbero solo al raggiungimento di una quadratura del cerchio contabile, infinita e non costruttiva. A maggior ragione, poi, quando la crisi ha dimostrato che l’ideologia economica su cui ci si basa è stata disastrosa.


Il secondo atteggiamento è forse più complesso. Se seguiamo il curriculum politico dei partiti, le posizioni dei parlamentari, alcune iniziative proposte e subito respinte, non si riesce a capire come una alta percentuale di cittadini scelga rappresentanti o esprima voti che non collimano per niente con la propria tipologia sociale o con i propri interessi. Si elegge ad esempio chi è favorevole alle privatizzazioni dei servizi pubblici o dei beni comuni (magari quando si è ferrovieri o postini), alla demolizione della socialità o della solidarietà (quando se ne beneficia), alla riduzione della spesa nella formazione (quando si hanno figli agli studi)… Ci si oppone a iniziative per salari più dignitosi, per premi di casse malati proporzionali al reddito, per pigioni più equilibrate (in un paese in cui gli inquilini sono il 70 per cento), per pensioni che non siano fondi sinecura di banche e assicurazioni private, per politiche fiscali che non privilegino i ricchi… Di solito per queste contraddizioni si incolpa l’informazione che non è passata oppure la controinformazione strapagata. L’assurdità rimane.

 

Leggendo una ricerca fatta da due economisti americani ci si può chiedere se non ci sia di mezzo un altro paradosso. Quei due hanno inventato una nuova espressione: “last place aversion” che potremmo tradurre: “disgusto dell’ultimo posto”. In parole povere: si vota contro il proprio interesse economico perché non si vuole che chi è al di sotto di noi (il meno abbiente, lo straniero, il vicino antipatico, il supposto indolente o scansafatiche, l’assistito ecc.) possa avvantaggiarsi, possa avvicinarsi alla nostra posizione, godere della nostra decisione politica. I due autori propongono proprio l’esempio del salario minimo: sono coloro che guadagnano qualcosa al di sopra del salario minimo che si oppongono alla sua introduzione. I risultati di alcune votazioni o i fallimenti di alcune iniziative o referendum (disoccupazione, invalidità, cassemalati, maternità, salario minimo) non hanno forse dentro il verme di quell’atteggiamento paradossale? Se così fosse, più che la politica ci vorrebbero la cultura e l’etica.

Pubblicato il 

09.10.13

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