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Nella vicenda Bello Figo, il rapper italo-ghanese a cui è stato impedito qualche settimana fa di esibirsi a Lugano da una serie di minacce per nulla velate depositate in un delirante volantino dalla chiara simbologia-paccottiglia filonazista, mi sembra sia stato sottaciuto un aspetto importante. E cioè l’uso contundente, con finalità offensive e dispregiative, della parola “profugo”. I due giovani della “Lugano bene” responsabili dell’atto, e ora condannati per coazione, minacciano infatti nel volantino gravi conseguenze, qualora la serata abbia luogo, sia per il locale sia «al profugo da voi invitato». Profugo, dunque, in una condizione-condanna che sembra definitiva, assoluta: sei profugo come sei donna, o nero, o omosessuale, per sempre, e per sempre e in quanto tale sei stigmatizzato.

 

Poco importa che il rapper di origine ghanese, poco più che ventenne, sia cittadino italiano a pieno titolo dal 2004. «Un profugo come lui non ha il diritto di essere sponsorizzato da una discoteca… e principalmente di farsi i soldi nel nostro cantone», scrivono i due giovanotti, incerti nella lingua e nel pensiero ma baldanzosi, eccome, nella foga violenta contro chi non gli è gradito. Un’equazione semplice, primaria, ma forte, e ben radicata: profugo = parassita, una persona non degna, senza diritti, da emarginare dal circuito virtuoso (produttivo), e da relegare ai margini: mai non sia, infatti, che insozzi le nostre strade, i nostri luoghi di aggregazione (ormai quasi solo le discoteche), i nostri occhi. Un progressivo scivolamento semantico verso il segno negativo, verso la manipolazione delle parole e il loro uso contundente, appunto.


In un bell’articolo dal titolo “Migranti, profughi e rifugiati. Anche le parole delle migrazioni sono sempre in viaggio”, gli studiosi dell’Accademia della Crusca si soffermano sul significato di questa e altre parole della migrazione, con considerazioni interessanti (lo si trova nel sito web della prestigiosa istituzione, www.accademiadellacrusca.it). Profugo, ci spiegano i linguisti, è parola dell’italiano antico, già attestata nella Bibbia volgare alla fine del XIII scolo; nella sua accezione di “esiliato, fuoruscito”, derivante dal latino “pro-fugere” (cercare scampo, fuggire avanti), indica ad esempio i patrioti italiani esiliati nell’Ottocento anche in Svizzera per dare destini di libertà al proprio paese: ed esempi (virtuosi) in questo senso sono numerosi. Molto più tardi entra nell’uso italiano, attraverso il francese, la parola “rifugiato”, che designa colui che è costretto (e non sceglie!) a fuggire dal suo paese di origine e a cercare protezione, il che lo distingue in maniera sostanziale dal migrante. Si deve infine rilevare come la parola profugo sia esclusiva dell’italiano: nelle altre lingue è infatti tradotto con l’equivalente di “rifugiato”: un’unicità che – dicono sempre gli studiosi – ha prestato il fianco a «usi distorti e discriminatori, con sovrapposizioni strumentali fino, nei casi peggiori, a far passare come sinonimi le parole profugo e clandestino».

 

Da eroi patrioti a paria, a categoria-scarto. Come non vedere, in questo progressivo e inesorabile svilimento, in questa riduzione al nulla, a una sotto-categoria di uomini, l’eco sinistra ancorché confusa dei nefasti miasmi di quella Vernichtung, di quella negazione dell’umano che tanto dolore e tanta morte ha creato, nella civile, colta Europa del secolo scorso? Che cosa, se non il fascismo, condanna in una condizione di imperitura inferiorità chi non ci piace, chi è percepito come diverso?

Pubblicato il 

22.06.17

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