Già a ridosso della crisi del ’29, Friedrich Pollock aveva osservato che l’impiego sistematico di tutte le risorse tecniche si sarebbe tradotto nella “tendenza a creare fabbriche sempre più deserte”. Oltre vent’anni dopo, l’economista della Scuola di Francoforte, allora residente nel Canton Ticino, sarebbe ritornato ad analizzare la tendenza alla creazione di fabbriche a operaio-zero, diagnosticando che “lo sbocco logico finale dell’automazione, è il processo lavorativo completamente automatico”, in quanto “l’automazione ha come scopo la sostituzione mediante macchine della forza lavoro umana”. Questo studio innovatore era connesso con l’elaborazione dell’altro concetto capitale che dobbiamo a Pollock, quello di “capitalismo di Stato”. Capitalismo di Stato che prevedeva due varianti (la cui distinzione, ma anche il cui intreccio, ho discusso in un mio recente libro), una totalitaria e una democratica, coincidente quest’ultima grosso modo con il concetto di Stato sociale democratico (welfare state).


È evidente tuttavia che mettendo in relazione capitalismo di Stato (anche democratico) con l’era dell’automazione in quanto epoca dominata dall’ideale economico della sostituzione dell’uomo a favore dell’elettronica più performativa e redditizia, ne risulta il paesaggio spettrale di un tecno-capitalismo attivamente e costantemente impegnato all’espulsione dell’uomo dall’economia e dai connessi processi decisionali. Già per Pollock ne risultava non solo una delle chiavi delle crisi occupazionali, ma alla fine anche una domanda sulla reale possibilità di qualche cosa ancora come una effettiva democrazia.


Il dominio attuale della razionalità economica, retta dal calcolo del profitto, nei confronti della concreta “giustizia sociale”, retta da valori politici e culturali di derivazione umanistica, considerati ormai obsoleti, testimonia che l’arido paesaggio nel quale viviamo è effettivamente segnato, per riprendere una formula recente di Wolfgang Streeck, dal continuo “processo di dissoluzione del regime del capitalismo democratico”.


La desertificazione-evacuazione della produzione intanto effettua le sue prove globali. Giunge in questi giorni da Dongguan, Cina, la notizia (cfr. la Repubblica, 8 maggio 2015) di un licenziamento in blocco di 1600 dipendenti su 1800: essi verranno sostituiti da un esercito di robot, che sulla prima linea della produzione prenderanno totalmente il posto degli operai, con un vertiginoso aumento dei profitti. Saranno poi gli stessi robot ad assemblare i propri simili , generandoli in base alle esigenze del mercato, con l’obiettivo di sostituire 30.000 posti di lavoro, dove “il governo regionale è disposto a spendere 150 miliardi di euro per sostituire gli operai con i robot”. E questa tendenza sarà seguita dai più importanti distretti industriali cinesi della fascia costiera e del sud, noti come “la fabbrica del mondo”.


Pollock certo con la sua cupa visione non si sbagliava: illimitata automazione e capitalismo (totalitario) di Stato si intrecciano e si rafforzano ora sempre di più. Pare quasi superfluo ricordare che, a differenza degli operai, i robot non possono suicidarsi e pertanto presentano il vantaggio di eliminare anche questi costi umani del tutto impertinenti, del resto ben noti a Shenzen.
D’altra parte, sia chiaro, nessuna residua illusione dialettica: imponenti e potentissimi dispositivi contro ogni minima possibilità di black-out sono permanentemente in funzione.

Pubblicato il 

20.05.15
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