Se si è aldisotto di una certa soglia di reddito si è a “rischio di povertà”. Come si stabilisce questa soglia? Ci si risponde: è il 60 per cento del reddito disponibile mediano. Quest’ultimo è una sorta di spartiacque tra i redditi più bassi e i redditi più elevati. Facciamola breve: quella soglia è situata a 2500 franchi mensili. Stando alla recente inchiesta dell’Ufficio federale di statistica il 13,3 per cento della popolazione residente in Svizzera ruota attorno a quella cifra ed è povera o a rischio di povertà. Quindi più di un milione di persone.

 

Si fatica a crederci nella ricca Svizzera. Tra i vari dati di quell’inchiesta ce n’è uno che lascia ancora più increduli: più di 280.000 persone a rischio di povertà  sono degli “attivi occupati”, gente che lavora ma deve prendere una miseria di salario. Se poi sommiamo costoro con i disoccupati o altri forzatamente inattivi che rientrano nella stessa categoria dei “poveri”, superiamo il mezzo milione di persone. Quindi: bassi salari, disoccupazione, lavoro temporaneo o interinale: questa, nell’ordine, è la gerarchia  della pauperizzazione delle persone o della precarietà della loro condizione.


Se calcoliamo che i lavoratori temporanei prestano servizio per un totale di ore di lavoro equivalente a oltre 75.000 posti di lavoro a tempo pieno e se al lavoro a tempo determinato aggiungiamo il lavoro a tempo parziale che in Svizzera rappresenta il 36 per cento della popolazione attiva occupata (di cui due terzi sono di fatto sottoccupati), abbiamo un’idea di quanto sia cambiato il mondo del lavoro negli ultimi vent’anni. Osservava di recente l’economista Christian Marazzi: «Invece di guardare alle variazioni minime, almeno in Svizzera, del tasso di disoccupazione, sarebbe più opportuno ragionare sul tasso di occupazione precaria, una categoria sociologica ed economica che meglio rende conto dello stato di salute della nostra società» (Plusvalore RSI/Rete2 del 20 novembre).


C’è una tendenza economico-sociale o una caratteristica del lavoro contemporaneo che sta affermandosi ed estendendosi e si traduce di fatto in ingiustizia sociale, ma anche in antieconomia. È il lavoro gratuito o semigratuito. Non quello del volontariato (non sempre innocente). Non quello richiestoci furbescamente da Ikea quando montiamo un mobile. Quello che si potrebbe definire coatto per necessità o circostanze. Ce ne siamo resi conto da alcune inchieste giornalistiche recenti, per alcune iniziative emerse, persino locali.

 

C’è chi l’ha definita «la vendita del futuro che rende denaro immediato a chi lo vende». Prende ormai varie forme: stage, volontariato, straordinari non considerati, retribuzioni infime, attività e capacità richieste ma non riconosciute e quindi non pagate.  E spesso l’erogazione di un  lavoro retribuita con null’altro che una promessa. Una promessa diretta: lascia intravedere al lavoratore, spesso giovane, che, dopo alcuni mesi di prova, di dedizione e costanza, potrà avere una possibilità di contrattualizzazione. Una promessa indiretta che ruota attorno ad una parola avvincente: visibilità. Devi farti conoscere, cerca di esibirti, dimostra di essere performante, e non si sa mai, forse hai messo un piede dentro e potremmo considerarti. Permette a molte persone, in particolar modo giovani, di poter rispondere a una domanda spesso imbarazzante: che cosa fai, di che cosa ti occupi? È una sorta di diga apertasi e sta facendo grossi danni, anche all’economia.

Pubblicato il 

04.12.14
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