Brasile

Domenica scorsa, nell’euforia per la rocambolesca vittoria sull’Ecuador nella sua prima partita ai mondiali in Brasile, di certo la nazionale svizzera non ha prestato attenzione a una particolarità (quasi) unica del teatro della sua impresa: aver giocato nello stadio più caro del mondo dopo quello londinese di Wembley, ricostruito nel 2007 al costo di 918 milioni di euro, e dopo lo Yankee Stadium di New York, inaugurato nel 2009 e costato 1100 milioni di euro.

 

Lo Stadio nazionale di Brasilia, intitolato all’indimenticabile Mané Garrincha, è costato 664 milioni di euro. Tre volte più del previsto e il più costoso fra i 12 stadi costruiti o rimodellati in occasione della grande e controversa kermesse brasiliana. Peraltro costati tutti fra il doppio e il triplo di quanto era stato calcolato dopo che nel 2007 la Fifa di Sepp Blatter aveva assegnato al Brasile i campionati mondiali del 2014. Il Brasile di Lula era in pieno boom economico e sociale e l’assegnazione sembrava il logico riconoscimento del suo nuovo status sulla scena internazionale.


Allora l’entusiasmo era (quasi) unanime: 80% di giudizi favorevoli. Il Brasile di Lula e, dopo il 2010, di Dilma Rousseff volle le fare le cose in grande, anche troppo. I costi si sono dilatati cammin facendo, e anche i problemi. Il governo aveva preventivato una spesa totale di 10-11 miliardi di euro, alla fine sembra saranno non meno di 40.


La Confederation Cup del giugno 2013, una specie di antipasto del mondiale, aveva già fatto scattare l’allarme in un paese investito dalla crisi economica globale e squassato da un’ondata di manifestazioni di massa. Allora gli “indignati” già questionavano le spese faraoniche per i mondiali e tutto il contorno che essi si portavano dietro. La piazza  esigeva che quei miliardi il governo li usasse per migliorare i trasporti urbani, risolvere il drammatico problema della casa, rendere meno orribili la sanità e l’istruzione pubbliche, abbassare il livello di insicurezza, diminuire l’abisso di diseguaglianze. Nonostante gli straordinari risultati degli otto anni di Lula – 30-40 milioni di brasiliani strappati alla marginalità ed esclusione grazie ai programmi sociali, e divenuti “classe media” –, il tasso di povertà resta al 24,5% più il 37,3% di popolazione considerata “vulnerabile” (4-10 dollari al giorno) e il livello delle diseguaglianze, seppur calato, vede il Brasile al 17° posto sui 140 paesi censiti.


Allora, nel giugno 2013, Dilma, che non ha il carisma di Lula, andò in tv per dire che le spese per la coppa sarebbero state finanziate per il 90% dai privati e per il 10% dallo Stato e si impegnò a un piano di riforme nei trasporti pubblici da 50 miliardi di reais (16-17 miliardi di euro) garantendo che “tutti” gli imminenti profitti petroliferi sarebbero stati usati per l’istruzione e la sanità. Oggi, il giorno dopo gli insulti classisti e sessisti rimediati (insieme a Blatter, seduto al suo fianco) giovedì 12 giugno nella partita inaugurale fra Brasile e Croazia allo stadio di Itaquerão di San Paolo, è di nuovo uscita allo scoperto per assicurare che le opere edificate per i mondiali «non sono per la coppa ma per il popolo di questo paese» e che «dal 2010 al 2013», il governo ha stanziato «per sanità e istruzione, 212 volte quanto investito per gli stadi».


Ma non sarà facile convincere una opinione pubblica che adesso chiede ed esige di più; non tollera che le spese colossali effettuate per i mondiali vengano non per il 90% dai privati e il 10% dallo Stato, ma per il 90% (e più) dallo Stato e il 10% dai privati; non crede alle assicurazioni di Dilma che quel 90% sia stato elargito ai privati sotto forma di crediti e prestiti dalle banche pubbliche, e che sarà restituito.
Oggi l’80% dei giudizi favorevoli del 2007 si è capovolto nell’80% di disapprovazione agli investimenti fatti per la coppa.


«La coppa non è per i brasiliani», si sente dire in giro. Non solo per le spese faraoniche e gonfiate ma anche per la gran massa di gente che non si potrà mai permettere di assistere a una partita nei fiammanti stadi visto il prezzo dei biglietti, che valgono più o meno quanto un salario minimo mensile (oggi equivalente a 240 euro).


Dilma deve sperare che Neymar e compagni il 13 luglio al Maracanã alzino la coppa e siano incoronati “exhacampeões”, campioni per la sesta volta. Perché se no per lei (che i sondaggi danno intorno al 40%, ma in calo), il “fattore mondiali” rischia di rivelarsi pesante, se non decisivo, in vista delle elezioni presidenziali del 5 ottobre.

Pubblicato il 

18.06.14
Nessun articolo correlato