Diario di classe

Alla fine dello scorso anno Elio Venturelli ha richiamato su Azione i dati di una crescente fuga di cervelli dal Ticino. Nell’articolo si stigmatizzava come soltanto nel 2015 le partenze verso altri Cantori di persone tra i 20 e i 39 anni residenti in Ticino avevano superato le 761 unità. Se poi a questi dati si aggiungevano gli altri svizzeri residenti in Ticino partiti e trasferitisi all’estero, la somma complessiva raggiungeva le 873 unità.
Un dato impressionante a cui se ne aggiunge uno ancora più grave e cioè quello che vede la quota dei giovani ben formati o molto formati in partenza dal Ticino in continua crescita, con una perdita di circa il 6% della popolazione giovane e formata che si trasferisce oltre Gottardo. Si è così passati dalle 200 unità di giovani ticinesi migranti verso il resto della Svizzera del 2000, ai 400 del 2012 e ai quasi 900 nel 2015.


Ora, per chi vive nel mondo della formazione professionale, questi dati non sono sorprendenti, anzi! Infatti, se da un lato siamo proprio noi attivi nella formazione, unitamente alle famiglie lungimiranti, a spingere i giovani ad andare fuori Ticino a fare importanti e utili esperienze professionali, dall’altro conosciamo molti casi di giovani formati e molto validi che in Ticino, una volta concluso il loro percorso formativo, non trovano lavoro in cui siano riconosciute le loro capacità. Molto spesso vengono offerti loro degli stage, ripetuti ed evidentemente sottopagati. E pur convinti che gli stage siano importanti e utili, essi hanno senso solo se sono veri stage e non furbi sistemi per beneficiare di manodopera a basso costo, come purtroppo oggi avviene sempre più spesso in Ticino. Del resto, è proprio questa impossibilità di trovare una soluzione lavorativa riconosciuta nelle competenze e nel salario dovuto che spinge i giovani a rivolgersi là dove le loro competenze non solo sono riconosciute, ma anche fortemente ricercate. E paradossalmente questo fenomeno avviene in Ticino anche in settori dove sulla stampa e nei consessi politici si afferma ripetutamente che c’è un forte bisogno di manodopera formata e qualificata, tanto da dover far capo a personale straniero.


Questo fenomeno è un ulteriore allarmante sintomo delle distorsioni ormai endemiche del mercato del lavoro in Ticino. Per molte attività economiche cantonali, purtroppo, il problema principale non è avere persone qualificate tra le proprie maestranze, ma piuttosto quello di spendere il meno possibile per la manodopera, non riconoscendo le competenze. Se per i giovani non è certamente positivo non vedere riconosciuti percorsi formativi e competenze nel proprio Cantone (anche se nel resto della Svizzera o all’estero avranno più opportunità di crescita lavorativa e di occasioni professionali), l’aspetto più grave è la forte incapacità progettuale del tessuto produttivo ticinese, che sempre più si allontana dai modelli di eccellenza svizzera.
Gli strumenti “tecnici” oltre tutto ci sarebbero e sono facilmente attuabili (contratti collettivi generalizzati e sorveglianza intensificata del mercato del lavoro) ma sono troppe le forze politiche pronte a farli propri esclusivamente a parole.

Pubblicato il 

26.04.17
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