Vendita

Il settore della vendita piange e i licenziamenti, evitabili o no, fioccano. Anche i marchi storici come Manor stanno mettendo in atto piani di risparmio che colpiscono direttamente i dipendenti. I posti di lavoro diminuiscono e le condizioni quadro peggiorano. In Ticino (e non solo) i negozi sembrano avere vita dura. Il problema non risparmia nemmeno i grandi marchi e anche il gruppo Manor ha cancellato dal Ticino una trentina di posti di lavoro in pochi mesi: ha chiuso delle filiali, ha licenziato e ha soppresso alcune figure quadro, come ci conferma Giangiorgio Gargantini, responsabile del settore vendita per Unia, che si dice preoccupato.
A inizio anno l’azienda ha cominciato col declassare gli assistenti dei capi reparto a semplici venditori, poi ha messo un solo capo reparto per più settori e declassato i capi reparto “in esubero” a assistenti, il tutto con una conseguente notevole diminuzione dello stipendio. Una prassi in atto in tutta la Svizzera e iniziatasi proprio, sarà un caso, con l’arrivo del nuovo Ceo, il francese Stéphane Maquaire, a metà gennaio.


«Abbiamo ricevuto varie segnalazioni di licenziamenti, ma anche di persone che non vengono licenziate, ma messe nelle condizioni di dover dare le dimissioni – dice Gargantini –. La recente chiusura della Manor di Viganello ad esempio, ha portato ad un ricollocamento di parte del personale in altre filiali, ma c’è chi prima lavorava al 100 per cento, e ora si trova al 40 e spesso con una trasferta più lunga per raggiungere Sant’Antonino o Biasca». A sud delle Alpi le misure di risparmio hanno toccato le sedi di Lugano, Vezia, Sant’Antonino e Biasca, senza contare la chiusura della sede di Viganello (vedi box), ma non è dato di sapere il numero esatto di licenziamenti. Tra il personale c’è un malcontento generale e anche molta apprensione (vedi testimonianza sotto): nessuno si sente al sicuro dal licenziamento, e questo spinge ad accettare condizioni di lavoro sempre più difficili e logoranti così come sostanziali diminuzioni di stipendio.


La strategia messa in atto dal gruppo sembra andare nella direzione di una sostituzione graduale di personale qualificato (anche impiegato da anni) con manodopera più economica, proprio per un marchio che si è sempre voluto distinguere per la professionalità dei propri dipendenti e la conseguente qualità del servizio offerto ai clienti. Manor è una realtà importante del commercio al dettaglio svizzero: impiega 10.200 persone nel Paese e nel 2015 ha realizzato una cifra d’affari di 2,64 miliardi di franchi. Lo stesso Maquaire a metà gennaio ha dichiarato di essere molto impaziente di prendere le redini di «questa insegna che domina incontrastata il settore dei grandi magazzini» e Didier Maus, presidente del gruppo proprietario di Manor, si felicitava al contempo del suo arrivo dicendo che «continuerà a costruire sulle solide fondamenta posate dal suo predecessore». A questo punto sorge spontanea una domanda: se Manor domina incontrastata il settore e ha delle solide fondamenta, perché sta tagliando posti di lavoro, chiudendo sedi e declassando il personale?

 

 

LA TESTIMONIANZA

 

Incontriamo Barbara* in un parco giochi. Anche lei lavora in una delle filiali Manor in Ticino, è d’accordo di raccontarci il clima che sta vivendo sul lavoro, ma in forma anonima: teme ritorsioni. «Al momento non sono stata toccata dai tagli perché sono in gravidanza e quindi non possono licenziarmi, ma il clima generale sul lavoro non è più buono e le condizioni di lavoro si stanno deteriorando sempre di più», racconta.
Anche nella sua filiale il direttore è cambiato, quello di prima (prossimo alla pensione) è stato spostato in una filiale a una sessantina di chilometri di distanza. Come in molte altre filiali della Svizzera (se non in tutte), la capo reparto è stata declassata ad assistente e l’assistente a venditrice, ritrovandosi entrambe con una busta paga ben più magra.


Il risultato delle politiche in atto, oltre che sui salari, si ripercuote anche sulla qualità di vita dei dipendenti: chi si ritrova a fare più chilomentri per recarsi al lavoro, ma anche chi resta nella stessa filiale con la stessa mole di lavoro di prima, ma con meno colleghi: «Se capita che sei ammalato o in vacanza, quando ritorni devi recuperare tutto il lavoro che si è accumulato – spiega ancora Barbara –. Ad esempio sono dovuta stare a casa alcuni giorni perché avevo fatto troppe ore e al mio rientro il magazzino era talmente colmo che quasi non si apriva la porta. Anche se si dovesse ammalare mia figlia e per contratto avrei il diritto a stare a casa con lei per curarla, dovrei pensarci bene se farlo o no». Insomma, il datore di lavoro non nega il diritto di ammalarsi o assentarsi, ma se al rientro la situazione che si ritrova è un accumulo di lavoro in più, sarà il lavoratore stesso a rinunciare “spontaneamente” ai suoi diritti.


Le chiediamo se teme di perdere il posto al rientro dal congedo maternità. Ci risponde di sì: «Sicuramente mi faranno fuori, stanno sostituendo tutto il personale con manodopera più economica. Forse non mi licenzieranno subito, aspetteranno due o tre mesi, ma sono quasi certa che mi lasceranno a casa o mi metteranno nelle condizioni di dovermi licenziare». Già al rientro dal primo congedo maternità Barbara racconta di aver rischiato di restare senza lavoro «ma per fortuna la persona che, sono sicura, avrebbe dovuto prendere il mio posto, ha rinunciato perché la mole di lavoro era troppa per lei e dopo i tre mesi di prova è rimasta a casa».


Ora che è in dolce attesa, la nostra interlocutrice beneficia di uno statuto speciale come lavoratrice: non può lavorare più di 9 ore al giorno e le deve essere garantito un riposo quotidiano di almeno 12 ore, ha diritto a 10 minuti di pausa supplementare ogni 2 ore e, a partire dal sesto mese di gravidanza, può lavorare in piedi al massimo per 4 ore al giorno. Queste sono le prescrizioni a livello federale per la protezione delle lavoratrici incinte. Le pause supplementari a cui si ha diritto dopo il quarto mese di gravidanza sono considerate tempo di lavoro e quindi pagate, ma che cosa sta succedendo a Barbara? «Il mio capo mi ha detto che adesso che sono al sesto mese devo firmare il foglio per le pause supplementari e che le devo timbrare. Io ho risposto che non sono da timbrare, perché tanto vale farle se poi devo lavorare di più per recuperarle, ma lui mi ha detto che le devo timbrare e poi me le scalerà a fine mese. So però per certo che a una mia collega son rimaste sul gobbo una ventina di ore da recuperare con questo sistema, perché in realtà non le sono state scalate le pause a cui aveva diritto», senza contare che in realtà Barbara ne avrebbe avuto diritto già dal quarto mese.                vg

* nome di fantasia

Pubblicato il 

30.03.17
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