Il coinvolgimento del Pakistan nel conflitto afghano al fianco degli Stati Uniti e delle truppe Isaf è all'origine dell'escalation di violenze e terrore che negli ultimi anni ha destabilizzato il paese. La storia è nota, al pari delle responsabilità del governo e dell'intelligence militare pakistana, troppo a lungo impegnati in un rischioso gioco di alternanze con Stati Uniti, Taliban e al-Qaeda.

Sebbene l'epicentro del conflitto sia rimasto l'Afghanistan, è progressivamente aumentato il numero degli scontri in territorio pakistano, soprattutto a ridosso del confine. I distretti di Nord e Sud Waziristan, Dir, Swat, nelle Fata (zone tribali) e più in generale la provincia Kyber Pakhtunkhwa, si sono trasformati in campi di battaglia di importanza strategica. La concentrazione di guerriglieri Taliban afghani in fuga, Taliban pakistani, Rete Haqqani, esercito di Islamabad, agenti segreti, mercenari e droni telecomandati ha determinato un mix incontrollabile, sfociato in pesanti scontri armati con il coinvolgimento di civili innocenti.
Il perdurare delle violenze lungo la Linea Durand, il fragile confine che divide Pakistan e Afghanistan, è all'origine di un pesante flusso di profughi pakistani che ad ondate successive si sono riversati su Peshawar, la capitale del Kyber Pakhtunkhwa, la terra dei Pashtun. Centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini costretti a lasciare le loro abitazioni, gli animali domestici, i pochi strumenti di lavoro con cui prestavano servizio per le società di legnami o per i proprietari terrieri, e i campi in cui coltivavano quanto bastava per sopravvivere.
A Peshawar ho incontrato alcuni di loro, ascoltato storie che parlano di violenze, paura, privazioni e mancanza di prospettive per il futuro. Uno dei problemi più gravi è ovviamente il distacco dalla terra di origine, da cui la perdita delle professionalità con cui ogni famiglia ha imparato a trarre un reddito, di generazione in generazione.
È il caso di Manan Gul, 52enne del Tehsil Razmak (Sud Waziristan), fuggito dagli scontri tra esercito e militanti nel 2008. Ci vediamo al mercato dei legnami di Peshawar, posto sulla via per il Kyber Pass e l'Afghanistan, lungo la Grand Trunk Road, antica strada diretta di 2.500 chilometri che collega Chittagong (Bangladesh) a Kabul. Manan Gul era un boscaiolo e commerciante di legname, gestiva una modesta attività al villaggio, sufficiente a dare lavoro ad una manciata di operai e a sostentare l'intera famiglia. L'intensificarsi degli scontri tra esercito pakistano e Taliban ha reso inevitabile la fuga, e di conseguenza la perdita del lavoro. «Ora vivo qui con i figli e la moglie [sei persone, ndr]», lamenta seduto su una vecchia sedia nel magazzino in cui lavora, a pochi passi da una baracca con il fondo in terra battuta, divenuta la sua nuova abitazione. «Sono costretto a lavorare come custode e venditore di tronchi. Percepisco un fisso mensile di 1.200 rupie (9 euro), più provvigioni su eventuali vendite, e devono bastare per tutti. Non siamo felici, ma non abbiamo alcuna scel-
ta».
Nel suo racconto Manan ricorda i giorni degli scontri, e le incursioni dei temuti aerei droni, i bombardieri senza pilota impiegati dall'aviazione degli Stati Uniti a ridosso della Linea Durand per stanare e colpire i combattenti islamici. «Ho visto più volte i droni che volavano in alto. Alcuni abitanti del mio villaggio sono stati uccisi da questi aerei, ma anche Taliban», racconta. «Una volta ero seduto in casa, e fuori c'era un'auto con dei combattenti. Il drone si è abbassato e ha fatto fuoco con due missili, uccidendo gli otto passeggeri, tutti Taliban. I civili spesso vengono uccisi poche ore dopo un attacco, a volte quando stanno rimuovendo corpi e veicoli da una strada, o dalle macerie di un'abitazione. L'aereo torna all'improvviso e spara ancora».
Ad un centinaio di metri di distanza, superati altri cinque magazzini identici, incontro un altro profugo, di nome Khan Bahadur, sveglio 53enne con una vistosa barba rossa, anche lui del Sud Waziristan. «Sono fuggito all'improvviso, due anni or sono, con i miei parenti e altre due famiglie», ricorda, «da quattro giorni erano in corso pesanti scontri tra esercito e miliziani. Poi la situazione è peggiorata, i militari hanno preso posizione nel villaggio e così siamo fuggiti, lasciando le case aperte». L'odissea della famiglia di Bahadur è continuata per quattro giorni, tra le montagne, senza meta: «Dormivamo per terra in grotte e ripari di fortuna, senza coperte e cibo». Bahadur conduceva una piccola bottega, di quelle minuscole aperte direttamente sulla strada, dove si vende un po' di tutto. «Riuscivo a mantenere la famiglia, si stava bene. Ora ho perduto tutto, e dipendo totalmente dagli aiuti offerti dal governo, anche se non li ricevo regolarmente. Spero un giorno di poter tornare al mio villaggio».
Lascio Bahadur e Peshawar in direzione di Jalouzai, minuscolo centro abitato che dà il nome al più grande campo profughi del Kyber Pakhtunkhwa. In questi giorni l'esercito pakistano sta conducendo una nuova offensiva contro i militanti del Lashkar-i-Islam (LiI) a Bara, suddivisione della Kyber Agency, area ad amministrazione tribale delle Fata (Federally Administered Tribal Areas). Si tratta di una rappresaglia alle violente imboscate messe a segno dal LiI a partire dal 17 ottobre, in cui hanno perso la vita 12 soldati, 48 militanti e 9 civili. Prima di passare all'azione, le forze di sicurezza hanno predisposto lo sgombero di alcuni centri abitati, concedendo ai residenti, quasi tutti contadini, poche ore per raccogliere le loro cose e andarsene.
«Abbiamo avuto modo di prendere poco, siamo partiti lasciando le case aperte, con i vestiti che avevamo addosso e qualche soldo», lamenta Yar Afzal, 32enne fuggito con la famiglia. Lo incontro mentre sosta paziente al suo posto, nell'interminabile coda che serpeggia sulla polvere fino ad un minuscolo capanno circondato da giunchi, dove è in corso la registrazione dei nuovi arrivati. Yar ha un fisico robusto, temprato dal lavoro di operaio per una piccola azienda di servizi del suo villaggio, abbastanza flessibile da accettare appalti di edilizia, falegnameria e agricoltura. Il suo impiego non era regolato da alcun contratto, per lui nessuna tutela sindacale o possibilità di ricevere indennizzi con cui fare fronte al licenziamento.
Addentrandomi tra le tende di Jalouzai incontro Almas Khan, 45enne della tribù Stori Khel. Per lui la vita al campo è una routine fatta di attese per i pasti, intervallati da qualche chiacchiera con gli uomini del clan e tanta, troppa inattività capace di intaccare la volontà di chiunque. «Quando i Taliban arrivarono dissero che nessuno di noi doveva collaborare con l'esercito, e fummo costretti ad ubbidire. Nel periodo in cui erano al potere non avevamo scelta, si lavorava, si pregava e si tornava a casa. Pochi di noi avevano problemi, a patto di essere neutrali», racconta. Almas mi accoglie assieme ad un gruppo di altri profughi, all'esterno delle tende destinate alle riunioni e alla vita sociale, situate nella parte meridionale della tendopoli.
Le donne, ovviamente, non sono ammesse. Per loro la quotidianità al campo è ancora più dura, costrette come sono a preservare l'onore della famiglia, limitando la propria azione oltre sudice pareti in stoffa, erette come barriere attorno alla zona notte.
Nel capannello di uomini seduti nell'area dell'incontro c'è anche Nigrar, un robusto 38enne barbuto, giunto al campo in licenza, per incontrare la famiglia. Dice di aver lasciato tutto «per diventare un combattente». Non un soldato, ma membro di un Lashkar ("associazione" o "esercito") anti-Taliban di Bara, localmente definito Khassadar, armato e schierato a supporto delle truppe pakistane. I Khassadar, impiegati per l'ottima conoscenza del territorio, in genere sono più determinati in battaglia rispetto ai soldati dell'eser-
cito. Molti di loro scelgono di combattere per difendere le proprie case e la terra in cui vivono, oppure in risposta alla morte di un familiare, per sublimare l'ennesima vendetta.
Lascio il Kyber Pakhtunkhwa consapevole che i problemi non finiranno in fretta. Come mi è stato più volte spiegato, da queste parti ad un anno di guerra ne seguono dieci di vendette e faide. Tra i pakistani, comunque, prevalgono l'ottimismo e la convinzione che prima o poi "torne-
ranno tempi di maggiore calma, inshallah".

Pubblicato il 

04.05.12

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