Il settore professionale di cui mi occupo suscita molto interesse tra i giovani del nostro Cantone. Una professione, in particolare, vede ogni anno un numero considerevole di giovani alla ricerca di un posto di tirocinio, nonostante comporti una formazione impegnativa sia dal profilo teorico che da quello materiale e fisico, senza con questo offrire in cambio salari particolarmente attrattivi. In parte le ragioni di questo successo sono da ascrivere al fatto che si tratta di una professione legata all’ambiente e alla natura. In parte al fatto che è una delle poche professioni in cui è ancora possibile seguire ed eseguire lo sviluppo di un lavoro dall’inizio alla fine. Ma credo sia soprattutto un altro l’elemento principe, e cioè che si tratta di una professione in cui l’investimento necessario per mettersi in proprio è piuttosto contenuto e alla portata di molte tasche, cosa che evita di far capo a prestiti “capestro”, difficili da onorare.


Certo, è strano che un elemento di questa natura possa influenzare la scelta formativa. Ma è anche vero che, in un mondo del lavoro sempre più precario, dove spesso la necessità di mettersi in proprio è frutto di un’imposizione più che di una scelta, anche elementi come questi possono diventare importanti. E non è casuale che a questa professione siano interessati molti giovani in seconda formazione, cioè con una precedente qualifica professionale che non ha permesso loro di trovare una collocazione stabile nel mondo del lavoro.


Di fronte a tutto ciò, diventa difficile considerare questi aspiranti e potenziali neoimprenditori dei “padroni” o “padroncini”, che dir si voglia, disinteressandosi di loro, buttandoli così nelle braccia del padronato (o, meglio, abbandonandoli a sé stessi e alla più assoluta assenza di regole).
Credo infatti che queste persone siano da considerare a tutti gli effetti e più realisticamente  “lavoratori distaccati”, piuttosto che “imprenditori”.


Ora, anche se è difficile accettare, da parte della sinistra e in particolare del sindacato, di entrare nel merito (che vuol dire concretamente far propria) dell’esistenza di una simile realtà lavorativa, frutto di un mercato del lavoro deregolamentato e nettamente sbilanciato a favore della precarizzazione del lavoro, credo proprio che si possa, anzi si debba comunque riflettere su questo tema.


In altre parole: non sarebbe possibile rigirare il discorso e tentare di recuperare queste persone nell’ambito del sindacato? Se a queste persone si offrisse infatti un quadro di riferimento organico e di sostegno (magari in forma cooperativa) entro il quale muoversi con la loro attività (garantendo ad esempio fonti di credito a interessi non di strozzinaggio, un sostegno o una consulenza in ambito contabile, un accompagnamento organizzativo eccetera) a condizione che in quelle aziende siano rispettate tutta una serie di “regole”  (ad esempio il corretto versamento degli oneri sociali e dei salari dovuti per eventuali collaboratori), non sarebbe un modo utile per riportare dentro il lavoro regolato e sindacalizzato una realtà lavorativa sempre più diffusa e oggi completamente deregolamentata?


Opporsi alla precarizzazione e alla deregolamentazione è un compito prioritario e di assoluta necessità per la sinistra in generale, per il sindacato in particolare. Sarebbe però un’importante occasione persa se ci dimenticassimo di tutto il resto, se non tenessimo conto del grande valore che hanno avuto e che sono convinta potrebbero ancora avere forme (magari con modalità diverse e nuove) di mutuo soccorso, se non tentassimo di raccogliere nel nostro grembo e “regolamentare” forme di lavoro inaccettabili ma ormai purtroppo ben radicate nella nostra società. Senza dover inventare l’acqua calda: cucendo tutto quanto già esiste sul territorio e mettendoci quel po’ di sinistra che serve (leggi riflessione sul rapporto tra capitale e lavoro). Non vale la pena di rifletterci?

Pubblicato il 

06.06.13

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