L'editoriale

“È evidente che una politica salariale equa e conforme al mercato consente all’azienda di far fronte alla concorrenza e reclutare i dipendenti migliori”. L’affermazione non è tratta da un documento di propaganda sindacale per un salario minimo legale, ma da un comunicato della direzione della catena di negozi d’abbigliamento H&M. Un comunicato nel quale si annuncia che dal 1° gennaio 2015 tutti i dipendenti delle sue filiali svizzere percepiranno almeno 4000 franchi al mese, ossia 22 franchi all’ora. Un livello retributivo che corrisponde esattamente a quanto previsto dall’iniziativa popolare in votazione il prossimo 18 maggio.

Un’iniziativa che dunque, ancor prima di essere votata dal popolo svizzero, già produce risultati tangibili.


Nelle ultime settimane diverse imprese che in passato erano finite nel mirino della critica per le loro politiche salariali indegne in un paese ricco come la Svizzera hanno deciso spontaneamente l’introduzione di un minimo di 4000 franchi: il discounter Lidl ha usato la decisione come veicolo pubblicitario del proprio marchio, mentre il rivenditore di scarpe Bata si è spinto addirittura oltre, con 4063 franchi. Dal canto suo l’Associazione svizzera dei fiorai ha emanato una raccomandazione ai propri membri affinché «nei prossimi anni» portino le retribuzioni minime a 4000 franchi. Si tratta indubbiamente di buone notizie, soprattutto per alcune migliaia di lavoratrici e di lavoratori.


Molto probabilmente, senza l’iniziativa che ha saputo riportare la questione del salario al centro del dibattito, questo non sarebbe successo.
Non ci si deve però accontentare, perché la battaglia non è affatto vinta. Il problema di fondo resta: sono infatti ben 330.000 le lavoratrici e i lavoratori che percepiscono meno di 4000 franchi per un impiego a tempo pieno e la regolamentazione esistente in Svizzera non offre loro alcuna garanzia che la situazione muti: mentre in altri paesi che non prevedono un salario minimo per legge un’altissima percentuale di salariati (l’85% in Danimarca e il 97 in Austria)  è garantita dai contratti collettivi, da noi solo poco più del 40 per cento gode di questa protezione, che oltretutto è spesso molto fragile.


Gli avversari del salario minimo che in queste settimane stanno conducendo una campagna “terroristica”  dai costi milionari insistono proprio sulla tradizione elvetica del partenariato sociale, ma d’altro canto le medesime associazioni padronali sempre più spesso si rifiutano categoricamente di accordarsi sulle condizioni d’impiego con i rappresentanti dei lavoratori e fanno di tutto per svuotare di contenuti i contratti collettivi. Questi “puristi” del libero mercato sostengono d’altro canto che l’imposizione di un salario minimo porterebbe ad un peggioramento delle condizioni economiche e causerebbe danni all’occupazione, il che è assolutamente falso: lo affermano autorevoli economisti,  lo dimostrano gli studi e lo conferma l’esperienza della maggior parte dei paesi occidentali dove il salario minimo è una realtà da tempo.


Una realtà che deve ora diventare tale anche in Svizzera, dove la pressione al ribasso sui salari ha ormai raggiunto livelli di guardia.

Pubblicato il 

02.05.14

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