L'editoriale

Ha suscitato ilarità e tenerezza l’immagine dell’arzilla 86enne che qualche giorno fa, “armata” di bomboletta spray, ha imbrattato con la scritta “i soldi per le armi uccidono” i pannelli protettivi posti davanti alla Banca nazionale svizzera e che per questo è stata arrestata dalla polizia bernese. La scena è divertente, ma la problematica sollevata è seria: il crescente coinvolgimento della Svizzera, stato neutrale e dalla tradizione umanitaria, nei conflitti armati in giro per il mondo. Una problematica oggetto dell’iniziativa popolare, lanciata proprio quel giorno, che mira a vietare investimenti elvetici in imprese che producono materiale bellico. Non proprio noccioline!


Dalla piazza finanziaria elvetica giungono miliardi nelle casse delle multinazionali dell’armamento. E non solo a imprese che producono “semplici” fucili, carri armati e granate, ma anche a quelle che realizzano armi atomiche, biologiche e chimiche o mine anti-uomo. Tra i principali attori troviamo le grandi banche (Credit Suisse e Ubs), la stessa Banca nazionale presa di mira dall’anziana attivista, le casse pensioni, ma anche fondazioni, società d’investimento, assicurazioni eccetera.


Ce n’è insomma abbastanza per giustificare un divieto  dei finanziamenti elvetici ai produttori di armi, cioè ai “fornitori” di morte sui terreni di guerra di cui siamo di fatto complici. Secondo Amnesty International, ogni anno mezzo milione di persone muoiono in guerra o in un conflitto armato e diversi milioni subiscono ferimenti gravi, vengono violentate e sono costrette alla miseria e alla fuga dal loro paese nelle condizioni disumane che ormai quotidianamente abbiamo sotto i nostri occhi.


Si tenga poi presente che la Svizzera, grazie alla politica “di maniche larghe” praticata dal governo, già gioca un ruolo dubbio come esportatore di armi (l’undicesimo più importante al mondo, il secondo in proporzione agli abitanti!), anche verso paesi con i regimi più repressivi, a partire da quelli della polveriera mediorientale.
Se infine consideriamo che siamo uno dei paesi con la più alta proporzione di armi da fuoco in mano a privati (circa 2,3 milioni), soprattutto a causa dell’anacronistica tradizione militare che vuole l’arma d’ordinanza custodita dal milite, non possiamo che giudicare problematica la situazione del nostro rapporto con fucili e pistole. Fortunatamente la Svizzera mantiene un basso tasso di criminalità, ma d’altro canto è risaputo che la disponibilità di armi significa anche disponibilità di mezzi suicidari e per commettere atti di violenza domestica. La situazione non è quella da far west che solitamente descrive nei dibattiti televisivi il segretario della Lega Nord Matteo Salvini (“Quattro milioni di Svizzeri possiedono un’arma che sono pronti usare contro chiunque si avvicini a casa”) a sostegno di una politica all’insegna di “più fucili per tutti”, ma meriterebbe qualche attenzione e riflessione in più.

Pubblicato il 

12.04.17
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