L'editoriale

La saggia decisione del popolo svizzero di negare all’esercito il credito per l’acquisto degli inutili aerei da guerra e il no dei ticinesi agli iniqui tagli ai sussidi di cassa malati aiutano a mitigare la delusione per il disastroso risultato ottenuto dall’iniziativa sindacale per l’introduzione di un salario minimo legale di 4.000 franchi. Un risultato che va addirittura oltre le più pessimistiche previsioni e che inevitabilmente suscita grande delusione nelle migliaia di persone che in questa battaglia hanno creduto e per essa si sono battute negli ultimi anni.

 

A questo punto è legittimo interrogarsi se sia valsa la pena investire tante energie e risorse finanziarie per ottenere così poco: guardando solo alla percentuale dei consensi scaturita dalle urne verrebbe da dire di no, ma se consideriamo anche gli effetti “collaterali” che l’iniziativa ha avuto (e che probabilmente avrà nei prossimi anni) possiamo perlomeno affermare che l’esercizio non è stato del tutto inutile.  

 

Essa ha consentito innanzitutto di tematizzare la questione dell’equità salariale e la necessità di intervenire contro il dilagante fenomeno del dumping e dello sfruttamento (di grande e drammatica attualità in particolare in Ticino). Una necessità che, almeno a parole, è stata riconosciuta anche dai rappresentanti del padronato che hanno combattuto con ferocia l’iniziativa popolare proponendo come alternativa la fissazione di salari minimi nei contratti collettivi di lavoro. Il movimento sindacale è inoltre riuscito a imporre i 4.000 franchi mensili come parametro di riferimento di un salario equo: non è un caso che proprio nel corso della campagna numerose aziende abbiano spontaneamente deciso di adeguare la loro politica salariale ai livelli chiesti dall’iniziativa e diverse associazioni padronali abbiano emanato raccomandazioni in questo senso. Il futuro ci dirà quali saranno gli effetti concreti.


Ma il più grande merito di questa iniziativa è sicuramente quello di aver scalfito uno dei tabù tipicamente svizzeri: il segreto salariale. Un principio secondo il quale la retribuzione del lavoro è un affare privato (quasi intimo) tra datore di lavoro e lavoratore di cui non si deve parlare, soprattutto con i colleghi. Molto caro alla destra e al padronato, esso viene invocato per non fare trasparenza sulle retribuzioni all'interno di un'azienda,  per eludere la questione dell'iniqua distribuzione della ricchezza prodotta dai lavoratori e per dividere i salariati. Del resto uno dei rimproveri principali mossi all'iniziativa sindacale è proprio quello che essa avrebbe portato lo Stato a “immischiarsi” in una questione “privata”.

 

Una questione che in realtà non è affatto “privata” visto che dal salario dipendono le condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione e dunque il benessere dell'intera collettività, così come le politiche sociali di un paese.


L'iniziativa sul salario minimo ha raccolto solo una manciata di consensi, ma del resto non poteva andare molto meglio in una fase storica in cui i rapporti di forza tra capitale e lavoro sono nettamente sfavorevoli ai lavoratori. In questo contesto, il fatto di aver posto la retribuzione del lavoro come una questione politica e d'interesse pubblico è stato sicuramente un contributo importante.

Pubblicato il 

22.05.14
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