Processo Eternit

L’ex padrone di Eternit Stephan Schmidheiny sapeva perfettamente che l’utilizzo dell’amianto nei suoi stabilimenti avrebbe causato una lunga catena di migliaia di morti, sia tra i lavoratori sia tra i cittadini comuni, ma non si è fermato. Ponendo il profitto al primo posto, il magnate svizzero ha anzi organizzato un’«opera di disinformazione» e ha ordinato ai suoi dirigenti di mentire. I giudici della Corte d’appello di Torino, che lo scorso giugno lo hanno condannato a 18 anni di carcere, ne sono convinti «oltre ogni ragionevole dubbio», come scrivono nelle motivazioni della sentenza rese note il 2 settembre scorso.

 

Motivazioni contenute in un voluminoso documento di quasi 800 pagine, con cui la Corte presieduta da Alberto Oggè in parte ridimensiona le accuse nei confronti del miliardario svizzero e del coimputato belga Jean Louis de Cartier de Marchienne (alla guida della multinazionale dell’amianto fino alla prima metà degli anni Settanta), che avrebbe subito la medesima condanna se non fosse morto pochi giorni prima della sentenza d’appello, come precisano i giudici.


Contrariamente alla sentenza di primo grado, il reato di “omissione dolosa di misure anti-infortunistiche sui luoghi di lavoro” è stato giudicato prescritto. D’altro canto la condanna è stata aumentata di due anni, poiché l’accusa di “disastro ambientale doloso permanente” è stata riconosciuta non solo per l’attività industriale svolta a Casale Monferrato (dove sorgeva lo stabilimento più grande e dove vi è stato e vi è il numero più consistente di morti e malati) e a Cavagnolo, ma anche in ordine alle fabbriche di Bagnoli (Napoli) e Rubiera (Reggio Emilia), per cui il disastro era stato ritenuto prescritto in primo grado. La pena viene dunque così ridefinita: 12 anni per le vittime di Casale Monferrato e due anni ciascuno per quelle degli altri stabilimenti.


Commentando le sanzioni, la Corte definisce il comportamento degli imputati «di notevole gravità»: per la «pluralità dei luoghi e degli stabilimenti interessati», per la «notevole durata della condotta» e «per la straordinaria portata dei danni e del pericolo che ne sono conseguiti e che ... tuttora continuano a conseguire». La gravità dei reati commessi, scrivono ancora i giudici, «risulta addirittura accresciuta se si passa a valutare l’intensità del dolo che ha costantemente accompagnato la condotta criminosa» di Schmidheiny e De Cartier negli anni di rispettiva gestione della società Eternit. La loro posizione è poi aggravata dal fatto che «hanno pure cercato di nascondere e minimizzare gli effetti nocivi per l’ambiente e per le persone derivanti dalla lavorazione dell’amianto, pur di proseguire nella condotta criminosa intrapresa, facendo così trasparire un dolo di elevatissima intensità».


Per quanto riguarda in particolare la posizione di Stephan Schmidheiny, determinante per l’innalzamento della pena è stata la sua «strategia di disinformazione» sui rischi legati alla produzione e alla commercializzazione dei manufatti in amianto con l’obiettivo di tranquillizzare i lavoratori e gli acquirenti dei prodotti Eternit e mantenere i livelli di redditività.


Una strategia che lui stesso ha illustrato nel giugno 1976 a Neuss (in Germania) nell’ambito di un convegno dove erano stati convocati tutti i dirigenti delle società facenti capo al suo impero (di cui aveva appena assunto il comando). Dagli interventi di Schmidheiny (è lui che apre e chiude i lavori) emerge la «sua piena consapevolezza» del «nesso causale che univa le fibre di asbesto alle patologie tumorali» che hanno «provocato un eccesso di morti rispetto alle attese statistiche della popolazione generale», scrivono i giudici citando ampi stralci del suo discorso. Erano anni in cui la sensibilità verso l’amianto stava mutando e «per cercare di mantenere la posizione acquisita», Eternit mise in campo una serie di «azioni coordinate e ben controllate». Il convegno di Neuss è il primo tassello di questa strategia.


Nel suo intervento (che si può leggere alle pagine 229 e seguenti della sentenza allegata all'articolo), Schmidheiny detta un programma di azione, il cui scopo, scrive la Corte d’appello, è di «impedire che i numerosi settori della collettività ancora interessati ad utilizzare i manufatti in cemento-amianto divenissero pienamente consapevoli dell’elevata nocività delle fibre sprigionate e pretendessero interventi che, se eseguiti, a-vrebbero reso di fatto impossibile e comunque trop-po oneroso l’esercizio delle attività produttive».

Schmidheiny esordisce andando subito al punto centrale («l’argomento più urgente da trattare è rappresentato dai problemi concernenti i posti di lavoro delle fabbriche in cui ci sono polveri di amianto»), ammette che le malattie asbesto-correlate «sono ormai un fenomeno conosciuto da tempo», afferma «l’esigenza» di organizzare «una reazione difensiva» dai «notevoli mezzi messi in campo contro l’amianto», riconosce che sino a quel momento (siamo nel giugno 1976) non si è ancora proceduto (in quanto non «ritenuto necessario») ad investimenti in materia di sicurezza e tutela dell’ambiente di lavoro) e detta la linea politica del gruppo: dichiara innanzitutto la ferma volontà di continuare ad «essere» e di «potere e dovere convivere con questo problema», pur nel riconoscimento «che l’amianto-cemento può essere potenzialmente un materiale pericoloso, se non viene maneggiato in maniera corretta» e con l’impegno di «procedere alla lotta contro la polvere nelle aziende in modo naturale» eseguendo «i lavori necessari senza tanto scalpore, ma con energia», così evitando «forme di panico» ed evitando che i lavoratori potessero «rimanere scioccati» come accaduto per i direttori tecnici presenti al convegno.


Convegno che peraltro conduce, pochi mesi dopo, alla redazione di un documento (denominato Hauls 1976) nel quale vengono fornite indicazioni su come gestire il problema amianto. Si tratta di una sorta di manuale operativo («licenziato con il consenso dell’imputato») dal taglio molto pratico, per aiutare i dirigenti locali a rispondere alle possibili contestazioni contro l’amianto da parte di operai, sindacalisti, giornalisti, vicini di stabilimento e clienti. Vengono così invitati ad insistere sul fatto che le argomentazioni a «discredito dell’amianto» sono frutto di una campagna diffamatoria «che mette a repentaglio l’esistenza della nostra industria».
Il piano, affermano i giudici, consiste «nel fornire informazioni fuorvianti, mescolando un po’ di verità con alcune falsità, presentando la conoscenza parziale e sostanzialmente ingannevole dei fatti come un fedele quadro d’insieme». Il tutto «per consolidare nell’opinione pubblica la credenza che, in certe condizioni, la produzione e il commercio di manufatti in amianto può continuare senza esporre a serio rischio l’integrità fisica delle persone».
Ma Schmidheiny (soprattutto a Casale Monferrato) è confrontato con i primi scioperi organizzati dai sindacati, che per lui diventano quasi un’ossessione: temendo un’azione concertata a livello europeo che potrebbe condurre a una messa al bando dell’amianto, segue personalmente le mosse dei sindacati italiani e chiede di essere tenuto costantemente informato sull’evoluzione, come dimostra un voluminoso carteggio tra lui e il direttore dello stabilimento di Casale.


Nel complesso, l’opera di disinformazione volta a tranquillizzare la collettività, scrive la Corte d’appello, «viene esercitata con discreto successo divulgando la falsa assicurazione che erano state impegnate notevoli risorse (in realtà 3 miliardi di lire) per sanare la situazione». Vengono «diffuse notizie infondate sull’efficacia delle bonifiche già compiute e sullo stato delle conoscenze scientifiche rispetto alla cancerogenicità dei minerali di asbesto» e in questo modo trascorrono «10 anni prima che l’opinione pubblica avesse una diversa e piena consapevolezza della pericolosità delle polveri di amianto».


Ma Schmidheiny non si ferma qui con la sua strategia di controllo delle informazioni, che proseguirà fino al 2006. Protagonista di questa seconda fase è la società milanese di pubbliche relazioni Bellodi, a cui il magnate svizzero affida il compito di gestire al meglio l’immagine di Eternit Spa in relazione alla pericolosità dell’amianto, di sminuire il ruolo del gruppo elvetico e di Schmidheiny, di monitorare le attività delle associazioni delle vittime e persino di spiare le mosse del sostituto procuratore di Torino Raffaele Guariniello.
Il procuratore però alla fine lo incastrerà, grazie anche a una serie di documenti che Guariniello fa sequestrare con un blitz della polizia giudiziaria proprio negli uffici della Bellodi. Documenti rivelatisi estremamente importanti per le indagini e per le due sentenze di condanna.


Ora, al miliardario svizzero non rimane che la strada della Corte di cassazione, che tuttavia non entrerà nel merito dei fatti: dovrà limitarsi a valutare questioni di forma e di competenza territoriale. È difficile dunque immaginare che Schmidheiny possa evitare una (pesante) condanna definitiva e il conseguente mandato di cattura internazionale.

 

Pubblicato il 

11.09.13

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