Razzismo

Essere fermati dalla polizia per un controllo d’identità e una perquisizione almeno una volta a settimana, senza aver fatto nulla di male, sarebbe estenuante. Eppure per alcune persone questa è oramai diventata la routine, al punto che non si domandano nemmeno più se sia giusto o no: ci hanno fatto l’abitudine. I poliziotti stessi che eseguono questi controlli spesso non si pongono la domanda e cadono nel tranello del profiling razziale perché generalizzano delle costatazioni sorte dalla pratica quotidiana del loro mestiere.


Che cos’è il profiling razziale? La Commissione Europea nel 2006 l’ha definito così: «qualsiasi comportamento o pratica discriminatoria effettuata dalle autorità di polizia e pubblica sicurezza o altri attori pubblici, nei confronti di individui e giustificata in ragione della loro razza, religione, origine nazionale, piuttosto che del loro comportamento individuale o del fatto che essi rispondano alla descrizione di una persona "sospettata"».

 

Le principali vittime di profiling razziale in Svizzera sono gli uomini di origine africana, sub-sahariana, spesso ingiustamente sospettati di risiedere illegalmente sul suolo elvetico o di spacciare droga per il solo colore della loro pelle. Anche molte coppie miste in cui l’uomo è bianco e la donna è nera, sono sistematicamente fermate e controllate perché sospettate di tratta di esseri umani e favoreggiamento della prostituzione.


Ne abbiamo discusso con Denise Graf, giurista per la sezione svizzera di Amnesty International e che si occupa anche dei casi di violenza commessa dalla polizia. Signora Graf, qual è l’ampiezza del fenomeno di profiling razziale in Svizzera?


È molto difficile dirlo perché da un lato non ci sono delle statistiche e dall’altro tanta gente non ha il coraggio di rivolgersi a qualcuno per denunciare questi episodi. Discutendo con un gruppo che lavora con i migranti, mi è stato riferito che le persone che si rivolgono a loro subiscono dei controlli regolari una o due volte a settimana, questo anche se presentano un permesso di soggiorno, non si trovano in un posto dove c’è lo spaccio di droga e non sono mai stati osservati come spacciatori. Ma ci hanno fatto l’abitudine e nella maggior parte dei casi non denunciano questi controlli abusivi. Da questo punto di vista è impossibile parlare in cifre sul fenomeno.


Negli anni il numero di persone che si rivolge a Amnesty International per questo problema è aumentato o diminuito?


Negli anni 2000-2005 avevamo circa un caso di denuncia a settimana in cui ci venivano segnalate anche delle violenze, adesso invece abbiamo circa un caso al mese dove c’è anche violenza, verbale o fisica. Poi però ci sono questi controlli che spesso non sono violenti, ma se ci sono dieci bianchi e un nero è il nero che è controllato, anche nei treni. Si tratta di controlli senza nessun elemento oggettivo: siamo convinti che la polizia disponga di tante osservazioni per sapere chi è implicato nello spaccio di droga e chi no, e potrebbero fare un lavoro molto più mirato sulle persone da controllare.


Queste persone che subiscono controlli sistematici, vengono fermate sempre dagli stessi agenti?


Spesso sì, i poliziotti che fanno le ronde nei quartieri sono sempre gli stessi e controllano anche persone che risiedono da anni nello stesso posto. A questo proposito posso raccontare la storia di un signore di origini africane che abita a Zurigo nel quartiere 4, dove si sa che c’è spaccio di droga. Lui è sempre stato controllato almeno una volta la settimana, anche se abita lì da anni e quindi i poliziotti sapevano che lui lavorava, aveva un permesso di soggiorno eccetera. Dai controlli su di lui non è mai emerso nulla. Un giorno questo signore ne aveva abbastanza, è andato al posto di polizia del quartiere e ha detto: io sono il tal dei tali, ho questo permesso di soggiorno, faccio questo lavoro, abito qui, ho due bambini eccetera. Subisco controlli da parte vostra ogni settimana almeno una volta, ma ne ho abbastanza. Prendete una mia fotografia, appendetevela qui in modo che tutti i poliziotti che lavorano qui la vedano, mi riconoscano e non mi fermino più. Da quel momento non è più stato controllato.


I controlli di polizia basati su elementi di profiling razziale sono legali?


Secondo la giurisprudenza del Tribunale federale «gli organi di polizia non sono abilitati a interpellare senza alcuna ragione e in qualunque circostanza chiunque si trova sul suolo pubblico. Una richiesta verbale d’informazioni personali o domanda dei documenti di legittimazione non deve avere un carattere vessatorio né obbedire ad un semplice sentimento di curiosità gratuita; non sarebbe ad esempio ammissibile che alcuni cittadini dal comportamento corretto siano regolarmente sottoposti a un controllo di polizia sotto pretesti futili o di ordine puramente soggettivo». Quindi secondo il Tribunale federale la polizia non avrebbe il diritto di fare questi controlli, ma c’è un margine d’interpretazione che permette che controlli basati sul profiling razziale continuino e restino impuniti.


Quando una persona è vittima di un controllo di questo tipo, a chi si può rivolgere?


In alcuni cantoni ci sono dei posti di contatto, degli uffici di consultazione e a livello nazionale c’è la Commissione federale contro il razzismo (Cfr). Noi, come Amnesty International raccogliamo queste segnalazioni, ma per motivi di disponibilità delle risorse non possiamo più intervenire in tutti i casi che ci vengono segnalati. Se però vediamo che ci sono 5 o 6 casi nello stesso cantone, a quel punto prendiamo contatto con il capo della polizia cantonale per informarlo e cercare di fare sensibilizzazione. Di solito poi la situazione migliora sensibilmente.


Qual è all’incirca la percentuale di queste denunce che arriva fino al tribunale e in che misura le vittime trovano giustizia?


Sinceramente se qualcuno viene da me per denunciare un caso di profiling razziale, solo in circostanze rarissime consiglio di portare la vicenda in tribunale. Questo perché sono pochissimi i casi che finiscono con una condanna e tantissimi sono invece già chiusi a livello del Procuratore. Gli avvocati devono essere molto insistenti per riuscire ad ottenere un’inchiesta approfondita, quasi mai viene accettata un’indagine supplementare e la mancanza di prove è un problema che vediamo spesso. Ad esempio nel 2007 mi era capitato di parlare con un Procuratore in Ticino che si occupava esclusivamente dei casi di violenza da parte della polizia, tra l’altro un esempio positivo di autonomia tra procuratore e polizia che gli permetteva di svolgere un buon lavoro, (ora questa figura non esiste più – ndr) e lui mi aveva confessato di avere in certi casi la sensazione che la vittima di violenza dicesse la verità, ma non ne aveva quasi mai le prove. Quello che lui faceva in questi casi era informare il superiore del poliziotto coinvolto in modo che nel caso lo stesso poliziotto fosse segnalato più volte, il suo superiore potesse prendere i provvedimenti adatti e fare un lavoro di sensibilizzazione.


A Zurigo abbiamo un problema con questo genere di denunce perché è quasi sempre lo stesso Procuratore ad occuparsene, ma praticamente nessun caso va avanti. Da circa due anni però abbiamo una tavola rotonda con la polizia, i migranti e diverse organizzazioni che difendono i diritti umani: in questi incontri c’è un dialogo e le cose vanno avanti, anche se molto lentamente. A Ginevra invece la situazione è particolare: ogni segnalazione di questo tipo che arriva in polizia è automaticamente girata al procuratore generale, che con un team di sei poliziotti si occupa di queste inchieste. Si tratta di un team abbastanza autonomo dal corpo di polizia che non è più coinvolto nel lavoro corrente della polizia cantonale, ma ne fa pur sempre parte. Inoltre, da diversi anni il canton Ginevra tiene una statistica piuttosto dettagliata su questi casi.

Pubblicato il 

03.07.14
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