La testimonianza

Dopo aver trascorso diversi giorni sulla strada con i migranti, si iniziano a cogliere dettagli sino a prima ignorati, o ritenuti superflui. Talvolta è possibile intuire l’area di provenienza di una persona, l’estrazione sociale, se ha sofferto fame, sete e altre privazioni, se ha conosciuto il buio siderale della detenzione e il dolore modulato delle sale di tortura; se è sopravvissuto alle bombe, o se è riuscito a fuggire prima che l’inferno emergesse dai crateri ingoiando ogni cosa.
In altri casi però, ogni tentativo di lettura finisce per schiantarsi contro un muro, una corazza impenetrabile emanata da uno sguardo, da un linguaggio corporeo diverso da tutti gli altri e in grado di scardinare le proprie convinzioni, mettendo alle corde ogni presunzione.


È quanto accaduto una notte lo scorso ottobre a Preševo, tra i tavoli usurati del Kolar, modesta locanda gestita con dignitosa volontà da un sessantenne emaciato, probabilmente nato con la divisa del cameriere cucita addosso. Non serve condurre un reality sulla ristorazione per comprendere le penurie patite dal Kolar, sopravvissuto malgrado tutto in questa isolata enclave albanese in territorio serbo, risorta dal torpore grazie all’arrivo di mezzo milione di migranti diretti in Europa. Un esercito di disperati da accogliere, sfamare e per qualcuno anche sfruttare, almeno finché dura.


Tra i tavoli del Kolar incontro Nagib, 42enne siriano in fuga da Aleppo assieme ad un amico sulla sessantina, per noi Muhammad. Mancano una decina di minuti alla mezzanotte, ma all’esterno della locanda l’asfalto continua a crepitare sotto i piedi di migliaia di migranti, incastrati nell’imbuto metallico che immette nel campo di raccolta dove viene rilasciato il “foglio di via”, tappa essenziale per proseguire verso Šid, e il confine croato.
Nagib è piuttosto alto e robusto, ha lo sguardo curioso e sicuro di una persona colta, abituata alle relazioni umane. Tra un sorso di tè e una boccata di sigaretta ordina con fare deciso un panino al pollo e delle patate fritte. Stessa richiesta per Muhammad. I due migranti trovano spazio di fronte al mio tavolo, posizione ideale per farmi pelo e contropelo. Gli occhi di Nagib indugiano sulla mia reflex incorniciata dalla tovaglia di plastica a fiori sopra il tavolo, poi il taccuino, la penna e una doverosa birra con cui congedare la giornata più difficile da quando ho lasciato la Turchia per risalire verso Trieste.


Sono stanco, quasi vinto dal dramma di Preševo, il “nodo infinito” della Via dei Balcani. Non ho più la forza di ascoltare, almeno per oggi, desidero solo abbassare i giri per poi addormentarmi nella stanza in cui alloggio, assieme ad un migrante libanese e ad altri quattro siriani. Capisco tuttavia di non avere scelta. Quell’uomo seduto davanti a me continua a cercarmi con lo sguardo, vuole parlarmi, e alla fine accolgo il suo invito cortese. Ancora una testimonianza, l’ultima storia per oggi, ma di quelle pesanti come un macigno, difficili da raccontare se non trascrivendo la traccia audio registrata nell’atmosfera rassegnata del Kolar.


Quando è incominciata la guerra civile in Siria, nel 2011, Nagib lavorava da tempo come medico legale ad Aleppo, la più popolosa città siriana di cui oggi in molti raccontano l’assedio (probabilmente finale), delle truppe governative spalleggiate dai bombardieri russi. Nonostante le violenze crescenti e l’insicurezza, Nagib ricopriva un ruolo importante, al pari della retribuzione da cui uno stile di vita sopra la media. Tuttavia le cose cambiarono il 19 marzo 2013, giorno dell’attacco chimico di Khan al-Assal costato 26 vittime e 86 feriti. Sin dalle prime ore seguite al bombardamento si iniziò lo scambio di accuse tra governo e ribelli, e ad oggi non sembra sia ancora stata attribuita con esattezza la responsabilità del massacro.  


Ad avere pochi dubbi sull’identità dei carnefici di Khan al-Assal è Nagib. In qualità di medico legale, fu lui ad esaminare i corpi di alcune vittime e dei feriti, riscontrando chiari segni di avvelenamento da sarin, dettagliati nel rapporto medico stilato in seguito. La relazione firmata da Nagib era troppo compromettente per le truppe di Bashar al-Assad, pertanto alcuni agenti della polizia governativa pretesero dal medico una revisione del referto, eliminando ogni riferimento al sarin. Furono tre i tentativi degli agenti. Prima si limitarono ad una richiesta esplicita, cui seguì il rifiuto di Nagib a ritrattare. Tornarono un mese dopo e ad un secondo rifiuto lo colpirono al volto con il calcio della pistola fracassandogli lo zigomo. Giunsero poi un’ultima volta mettendolo in stato di arresto. Si iniziò così per Nagib un calvario durato un anno, trascorso nel ventre del sistema carcerario siriano. Un lasso di tempo infinito, segnato da torture, pestaggi, umiliazioni; poi la fame e la sete, quindi il terrore provocato dalle urla degli altri carcerati, uomini, donne e bambini indiscriminatamente sottoposti ad elettroshock, stupri e mutilazioni, fino alla sua scarcerazione, pagata in contanti. Una montagna di dollari che i parenti del medico di Aleppo sono riusciti a raccogliere acquistando la libertà. Prospettiva negata a migliaia di altri carcerati, privi di danaro, in molti destinati a consumarsi fino alla fine dietro le sbarre.   


Nagib, mi spieghi qual è il suo lavoro e che cosa ha visto.
Come medico legale, ho visto le persone che sono morte a causa delle armi chimiche. L’attacco è stato ordinato da Assad nel 2013, io ho visto 16 morti, mentre altre 42 persone erano state esposte alle sostanze tossiche riuscendo però a sopravvivere.


Che tipo di ferite ha individuato?
Dolore al petto, occhi rossi, lacrime.


Quali armi sono state usate?
Bombe al sarin. Ho emesso una diagnosi formale dichiarando che si trattava di sarin.


Come ha avuto inizio tutto?
Sono stato sottoposto ad un procedimento legale. La polizia mi ha ordinato di scrivere nel mio referto ufficiale che non si tratta di armi chimiche. Ho risposto dicendo che non potevo.


Quali sono gli effetti del Sarin?
Le vittime dimostravano che era avvenuta una perdita di sangue, un’emorragia interna.


C’erano bambini tra le vittime?
Sì, tre bambini.


Perché è stato messo in prigione?
Quando mi hanno ordinato di ritrattare non sono stato d’accordo con le loro richieste. Dopo un mese, visto che io non avevo fatto nulla, sono venuti all’ospedale e davanti ai miei studenti mi hanno picchiato. A quel punto ho avvisato il mio avvocato ma non è servito, e il mese successivo hanno fatto ritorno all’ospedale dove mi hanno prelevato e messo per 25 giorni in una cella minuscola, completamente buia, senza alcun processo.


Il luogo in cui è stato incarcerato com’era?
Un posto piccolo, dove non potevo fare nulla, ho solo tentato di spegnere il mio cervello. Ogni giorno mi davano mezzo litro d’acqua puzzolente e un pane arabo.


E dopo questo periodo di detenzione?
Al termine dei 25 giorni ad Aleppo sono stato trasferito in un’altra prigione ad Hama, quindi a Homs e alla fine a Damasco. In tutto ho girato 10 prigioni. È normale che gli incarcerati vengano spostati di frequente, in questo modo nessuno riesce a sapere con esattezza dove si trova un prigioniero. A Damasco sono stato rinchiuso in una cella di 30 mq con altre 120 persone.


Ma come è possibile riuscire a starci in così tanti?
È possibile! Sono rimasto in quelle condizioni per 6 mesi. Ogni giorno morivano 4, 3, 5 persone… ogni giorno! Per sfinimento, malattie, ferite…  


Durante la prigionia veniva picchiato?
Guardi qui sotto (si alza i pantaloni al ginocchio scoprendo i polpacci, ndr), sono segni di sigarette. Su tutto il mio corpo, a decine. Poi mi hanno appeso alla parete con delle corde legate ai polsi, in questo modo si sono lacerati i muscoli e i tendini. Mentre mi trovavo in questa posizione hanno legato il mio pene con degli elastici, poi tiravano con forza. Ma la cosa peggiore che ho visto è stata all’ospedale Tishreen di Damasco. Qui, 200 metri prima di arrivare al pronto soccorso ci sono due stanze, dove mettono la gente a morire. Iniettano benzina nelle vene e ogni giorno muoiono dalle 15 alle 20 persone. A morire ci mettono 3 giorni.  


E il suo amico?
A Muhammad è toccato anche di peggio. Pensi che lo hanno lasciato appeso alle braccia per 18 giorni, bastonato sistematicamente. Costretto a farsi i bisogni addosso.   


Come mai lei è stato rilasciato?
Perché mia madre e mio fratello hanno pagato 300 mila dollari per liberarmi. Avevano già stabilito la mia esecuzione, ma poi mi hanno rilasciato dandomi dei documenti.


Tornando alla prigione di Damasco, lei accennava al fatto di essere sotterranea.
Si, 3 piani sottoterra. I piani 2, 3 e 5. La prigione è chiamata Filastin, significa Palestina in arabo. Ogni piano ha 38 celle da 120 persone l’una, come la mia. Poi ci sono circa 20 celle singole, in cui sono stipate anche 12 persone.


È mai riuscito ad uscire per un’ora d’aria?
Neanche per idea. Rimanevamo tutti fermi, stipati nella cella. Non era possibile sdraiarsi per dormire, si dormiva in ginocchio. Non ho visto il sole per 6 mesi.


E come funzionava con l’utilizzo dei servizi igienici?
Avevamo una sola toilette da condividere in 120. Potevamo utilizzarla due volte al giorno, per 15 minuti massimo. Quando ci si trovava dall’altra parte della stanza bisognava fendere la folla e arrivare alla tazza. L’acqua del rubinetto era pessima. Il tubo dell’acqua pulita era unito a quello dello scarico, pertanto usciva un mix di acqua fetida. Chi la beveva dopo era ancor più assetato.


E per nutrirvi?
Mangiavamo una volta al giorno. Del pane, un cetriolo, riso con i sassi dentro e dell’acqua. Nelle prigioni ci sono bambini di 8 anni, nelle stesse condizioni, picchiati e uccisi. Le donne divise, ma nello stesso edificio, picchiate e violentate. Sentivamo tutto.   


Come è fuggito in Arabia?
Dopo il riscatto sono fuggito con mia moglie. Ho trascorso 10 mesi in Arabia, poi sono partito per venire in Europa. L’Arabia è un posto pessimo in cui vivere.


Perché ha deciso di venire in Europa?
Non posso più tornare in Siria… noi siriani non vogliamo vivere in Europa, ma siamo stati costretti da Assad ad abbandonare la nostra terra. Noi non vogliamo la vostra nazione, lasciateci vivere nella nostra!  


Questo era chiaro, ma dopo la sua esperienza, intende andare dalla polizia per denunciare i fatti?
Voglio semplicemente vivere.


Adesso la Russia è scesa in campo a fianco di Assad. Che cosa pensa al riguardo?
Per me Russia, Iran e Corea del Nord sono il diavolo. Putin è un dittatore, come Assad, un ex agente del Kgb. Assad continua ad uccidere i rivali politici per rimanere al suo posto. Purtroppo gli “amici” dei siriani si stanno dimostrando amici pessimi, come l’America, l’Europa, l’Arabia Saudita. Sono bugiardi, i siriani pensano che tutti loro siano i peggiori bugiardi del pianeta.   


Come può l’Europa fermare la guerra in Siria?
Ora l’Europa non può fermare la guerra, perché Putin è più forte di tutta l’Europa... Si ricorda di Charlie Hebdo, il giornale francese?


Sì, certo

Quando c’è stato l’attacco, tutti gli europei erano sconvolti da quegli avvenimenti. Dovete capire che voi non siete “più preziosi” di noi! Anche noi siamo esseri umani, le nostre vittime valgono quanto le vostre. L’Islam non è quello che avete visto a Parigi.   


Putin sta facendo qualcosa contro l’Isis?
No, i russi stanno combattendo il nostro Free Syrian Army (esercito siriano libero, l’opposizione ndr).


In quale nazione europea è diretto?
Belgio.


Che cosa cerca in Belgio?
Per prima cosa voglio rimanere vivo. So troppe cose e non mi sento al sicuro nemmeno in Europa. Ho passato molte informazioni alle Nazioni Unite quando ero in Arabia, ma non hanno fatto praticamente nulla. Non so se voglio espormi oltre.

Pubblicato il 

02.03.16
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