Storie di confine

«Non mettere il mio nome vero. Tu lo sai ma scrivi che sono… Aspetta che ci penso… Mustafà?».
D’accordo. Mustafà, al di là di quella che chiamiamo ramina, si guadagna la pagnotta: «Lavoro dal martedì al sabato, dalle 9 alle 17 e la domenica fino alle 13. Fa freddo, fa caldo io sono sempre in mezzo alla strada». Ci tiene a sottolinearlo perché ogni tanto qualche passante gli grida rabbioso «ma va a lavorare! Torna al tuo paese!». Nel mucchio c’è anche chi è cattivo più degli altri: «In faccia non me lo ha mai detto nessuno, ma capita che girata la schiena, si senta un “marocchino di merda”. Mi fa sempre male allo stesso modo».
Mustafà commercia in paccottiglia per le vie di Lavena Ponte Tresa: roba insomma da due soldi. Mustafà è un “vu cumprà”, ma per favore non chiamatelo così: «Vu cumprà non mi piace, mi dà fastidio, mi sembra una parolaccia. Io sono un venditore, un venditore ambulante» sottolinea con fierezza. E, sebbene da tanti anni viva a due passi dal confine, non ha mai messo piede in Svizzera. «Non sei curioso?». No, non è curioso Mustafà, in fondo «tutto il mondo è paese». Noi insistiamo: «Dai che ti portiamo a Lugano. È peccato essere così vicini a una città e non averla mai visitata».


Ti conosciamo, Mustafà, da tempo. Da quanto? «Dal 2005. Sono in Italia da 8 anni». Quando andiamo a Lavena Ponte Tresa lo ritroviamo sempre al solito posto. Ci viene incontro con il sorriso e la mercanzia che gli penzola da una mano, mentre con l’altra regge un pesante sacco dove ha riposto il resto del suo povero negozio errante. Ci chiama per nome, chiede della nostra famiglia, del nostro lavoro, di come stiamo, insomma della nostra vita. Come avviene fra buoni conoscenti.


L’ultima volta ci ha mostrato le sue foto in Marocco. Felice in un campo di fiori. «Possiamo intervistarti? Ti andrebbe di raccontare la tua storia?» abbiamo buttato lì. Sorriso timido e tutto d’un fiato: «Va bene. Ma mi mettete sul giornale? Uhhh». Sì, Mustafà, il “vu cumprà”, è in terza pagina.
All’appuntamento arriva puntuale come un orologio svizzero (noi in ritardo) e preparato: con sé ha portato i suoi documenti a comprova del racconto che ci farà. Da dove incominciamo? «Andiamo a mangiare. È mezzogiorno. L’intervista la facciamo al ristorante». Un attimo di perplessità: «Non ho fame oggi» sussurra vergognoso. «Noi sì però. Ci offendi, ti offriamo il pranzo con grande piacere, ci stai dedicando del tempo, per favore non rifiutare».
Siamo in pizzeria: Mustafà punta su spaghetti al pomodoro e acqua naturale, che «non costa tanto».


Da dove arrivi, Mustafà?
Dal Marocco, vicino a Casablanca. Il mio paese è bellissimo ma non c’è lavoro. È una storia comune.


Che cosa sognavi di trovare in Europa?
Sono il primo di cinque figli, dopo di me ci sono quattro sorelle. Vedevo la fatica di mio padre, aiuto manovale, a mantenerci e quando sono cresciuto ho pensato che dovevo fare qualcosa per loro. Lo sentivo come un dovere. E poi osservavo i miei connazionali emigrati in Europa quando tornavano da noi: belle auto e niente più problemi di soldi. In Marocco ho fatto l’aiuto imbianchino: da noi uno stipendio medio è di 150/200 euro e la vita è comunque cara. Ho deciso allora di tentare di raggiungere l’Italia perché in Marocco non avevo futuro. I miei non volevano. Da noi i genitori non decidono queste cose. Io ci ho pensato tanto, da una parte volevo, dall’altra no, alla fine sono partito. Mi ripetevo: “Adesso troverò subito un lavoro... Imbianchino, manovale, magazziniere... Guadagnerò bene e la nostra vita cambierà”. Per me l’Italia era il Paradiso: bastava comportarsi bene, essere onesti e non avrei più fatto tanta fatica per mangiare. Forse ero un po’ ingenuo (ride divertito, ndr).


Come sei arrivato in Italia? Chi ha organizzato il viaggio?
Sono partito in auto con un compaesano. Abbiamo attraversato le dogane senza problemi: di notte non ci sono quasi controlli. Sono rimasto dieci giorni in Spagna e tre in Francia prima di passare l’ultima frontiera, quella italiana. Ero diretto a Luino dove ho dei parenti. Sono arrivato senza documenti così se la polizia mi fermava, non mi avrebbe potuto rimandare in Marocco.


Qual è stato l’impatto con la nuova realtà?
Difficile, non riuscivo a comunicare con la gente. Parlavo solo arabo, niente italiano, ripetevo in continuazione “ciao” a tutti. Per imparare la lingua stavo in casa a guardare la televisione.
Ti ricordi il primo giorno che sei sceso in strada a lavorare?
Sì. È stato a Gallarate.


Non parli più, non è un buon ricordo?
No. Immagina. Non avevo mai venduto niente, non sapevo come fare e non riuscivo a comunicare con le persone. Non ho venduto niente quel giorno e neanche i giorni dopo. È stato brutto psicologicamente soprattutto quando capivo di dare fastidio. Alcune donne avevano paura, stringevano la borsetta sotto le braccia. Ma anche io avevo paura della polizia perché ero irregolare, senza documenti e permessi. A letto la sera pregavo Dio e piangevo.


Adesso hai il permesso di soggiorno e quindi vuol dire che hai trovato un lavoro?
Sì e no. Per essere davvero in regola, dovrei avere la licenza di venditore ambulante, ma costa 6.000 euro all’anno. Tantissimo. Non posso permettermela.


Come hai fatto a ottenere la residenza?
Un signore italiano molto buono mi ha aiutato. Ha fatto risultare che lavoro per lui, anche se non è vero. Con il contratto di lavoro ho ottenuto il permesso di soggiorno e così ho potuto avere carta d’identità, codice fiscale, tessera sanitaria ed essere in regola sul territorio italiano.


Se hai un contratto, seppur fasullo, paghi anche le tasse...
Sì, 100 euro al mese. Guarda, questi sono i versamenti.


Con il contratto di lavoro, che cosa hai conquistato?
Con i documenti adesso posso spostarmi come un qualsiasi uomo libero. Prima non potevo muovermi. Dal 2011 posso ritornare a casa quando ne sento il bisogno. Per sei anni e mezzo ho avuto unicamente contatti telefonici con la mia famiglia: non potevo rischiare di passare la frontiera perché ero un clandestino. Ho sofferto tanto, mi sentivo solo e ho avuto voglia di mollare tutto.


Che cosa ti manca per raggiungere quello che volevi trovare in Italia?
Un vero posto di lavoro con uno stipendio. Ho fatto tante domande, scritto tante lettere, ma niente. Speravo di trovare un lavoro con l’apertura del nuovo supermercato, ma non mi hanno neanche risposto. Con un’entrata regolare potrei sistemarmi e smettere di fare il venditore in strada. Magari anche trovarmi una moglie e aspettare la pensione per tornare in Marocco dove comprarmi una casa. Per ora non guadagno abbastanza per poterci pensare.


Ti piacerebbe sposarti? Sei fidanzato?
Sì, ho una ragazza che ha 22 anni, l’ho conosciuta in Facebook. La sua famiglia non sa niente, neanche la mia. Da noi si combinano i matrimoni, ma sono io che devo stare con lei tutta la vita e devo decidere io. Ci vediamo di nascosto quando torno al paese in vacanza. Lei mi ama e vorrebbe sposarsi, ma prima devo risolvere il problema del lavoro.


Quanto guadagni al mese?
Gli ultimi tempi sono stati un disastro e il lavoro è andato male: pioveva sempre! Generalmente 400, 450 euro. A volte meno, a volte di più come a Natale: si riesce a farne quasi 1000, ma è solo un mese su dodici.
Mettiamo una media di 450 euro.

 

Che spese fisse hai?
Ne pago 180 di affitto, 100 di tasse, poi c’è l’elettricità e devo mangiare. Mi restano circa 50 euro che mando alla mia famiglia. Per me non riesco a risparmiare niente.


Che cosa vendi? Dove compri la merce?
Le cose che vanno di più sono accendini, calze, cinture, portafogli. Compro a Milano dai cinesi.


Chi sono i clienti migliori?
Gli italiani che vivono in Svizzera, sono i più generosi. Gli altri invece dicono “non ho soldi, c’è la crisi”. Ho anche clienti svizzeri che sono diventati amici, vogliono sapere della mia vita, della mia famiglia in Marocco, mi invitano in Ticino a mangiare ma non sono mai andato.


Hai mai avuto problemi con le forze dell’ordine?
Mi è capitato di essere fermato e ho pianto come un bambino. La prima volta ero disperato. Mi hanno portato in caserma, avevo paura. Possono anche arrestarti o sbatterti fuori dall’Italia: a me non è mai successo, mi è stata sequestrata la merce e basta. Io capisco, è il loro lavoro. Ma adesso con il permesso di soggiorno sono tranquillo e non ho più terrore se incontro un carabiniere.


Abbiamo finito di mangiare, la visita a Lugano ci aspetta. «Mi puoi prima accompagnare a casa che non voglio passare la dogana con la merce?”. Va bene. «Vuoi anvedere casa mia?» ci guarda e si capisce che ci tiene. Va bene. Mustafà vive con due cugini in un bilocale all’interno di un vecchio stabile contadino a qualche chilometro da Lavena Ponte Tresa. Entriamo nell’atrio-cucina-salotto che è un tutt’uno: a terra vecchie piastrelle decorate e le pareti tinteggiate di rosa. Una teiera in ferro in stile orientale, il tavolo, il divano-letto, le foto sul muro. Un’atmosfera accogliente. Potremmo definirlo uno spazio povero ma decoroso. Un piccolo bagno e in fondo la camera dove Mustafà dorme con uno dei cugini. Due letti, un apparecchio per ascoltare la musica, e l’armadio: una perfezione geometrica per farci stare in quel micro spazio tutto. «Complimenti, Mustafà, per l’ordine e la pulizia. Ti invidiamo, noi non riesciamo a mantenere la nostra casa così» osserviamo. «Io sono una persona seria» replica ridendo. «Cosa dovrei fare? Andare nei bar a spendere soldi e a bere alcol? A me piace cucinare, preparo io il pane, stare in casa tranquillo. Se non lavoro, sono qui. Prego, ascolto la musica, sto al computer. Io so come devo comportarmi grazie alla religione, seguo solo la volontà di Dio» annota mentre ci offre da bere. Questa volta tocca a lui.


Adesso siamo di qua, in Svizzera. Passiamo il ponte e ci ritroviamo in un altro paese. Mustafà si appiccica al finestrino per guardare se è cambiato qualcosa. «Che cosa noti?» gli chiediamo curiosi.«Le strade sono pulite! Niente carta e bottigliette in giro! Non ci sono buchi! Ma la gente dov’è? Non vedo nessuno…». Toccata e fuga a Caslano, poi l’aeroporto, infine il lungolago. Ultima tappa in redazione. Sulla porta Mustafà prima di entrare chiede permesso, pensiamo che noi da lui non abbiamo fatto altrettanto. Siamo di ritorno. «Ti piacerebbe vivere in Svizzera?». «Forse», Mustafà ormai guarda il mondo con disincanto. Prima di congedarsi e incamminarsi per il confine, ci regala un cammello in legno: «Mi raccomando, dagli tanta acqua. Trattalo bene».

Pubblicato il 

20.06.13

Edizione cartacea

Nessun articolo correlato