Lo studio

Hanno tra i 26 e i 35 anni, provengono da tutte le parti d'Italia, posseggono titoli di studio molto elevati o diplomi, alcuni svolgono lavori altamente qualificati, altri mansioni più umili rispetto ai titoli conseguiti e altri ancora abbandonano gli studi per tuffarsi nei settori della ristorazione, dell'edilizia o nell'industria, in genere non vivono problemi d'integrazione, non hanno contatti né col sindacato, né con gli organi di rappresentanza della comunità italiana in Svizzera, né con le generazioni delle precedenti ondate migratorie. Questo, in estrema sintesi, il profilo dei nuovi migranti italiani a Zurigo, una meta  sempre più gettonata tra le decine di migliaia di giovani che ogni anno decidono di lasciare l'Italia per andare a cercare lavoro e fortuna altrove.

 

A rivelarlo sono i risultati intermedi di un'interessante ricerca, realizzata dalla Fondazione italiana Giuseppe Di Vittorio in collaborazione con Ecap Svizzera, che mira a comprendere le condizioni delle nuove generazioni che vivono in un paese diverso da quello dove sono nate, a partire da una serie di interviste a ragazze e ragazzi residenti in sei città europee, tra cui Zurigo.
Guardando a questa realtà a noi vicina, balza subito all'occhio un'impennata dell'immigrazione italiana negli ultimi anni: nella sola area consolare di Zurigo, tra il 2012 e il 2015 il numero annuale di nuove iscrizioni all'Aire (l'Anagrafe dei Cittadini Residenti all'estero) è praticamente decuplicato, passando da 200 a quasi 2000. E questo dato dice ancora poco tenuto conto che la maggior parte, nonostante l'obbligo legale, non si registra; indicativo è anche che a livello nazionale il numero di italiani residenti, dopo essere diminuito costantemente a partire dal 1980 da oltre 400.000 a meno di 300.000, negli ultimi 6-7 anni è tornato a crescere.
«Complice la difficoltà di lettura delle statistiche esistenti, risulta però pressoché impossibile dare una dimensione esatta del fenomeno, che è quello di un aumento importante di nuovi immigrati», spiega ad area Mattia Lento, il ricercatore che con le colleghe Sarah Bonavia e Pinuccia Rustico ha curato l'indagine sulla realtà zurighese. Del resto, sottolinea il nostro interlocutore, «più che sui numeri, ci si è concentrati sugli aspetti qualitativi della nuova migrazione italiana».


Una migrazione che non è fatta solo di “cervelli in fuga”, cioè di forza lavoro altamente qualificata alla ricerca della migliore situazione professionale possibile, ma anche di gente che ha semplicemente bisogno di un salario. È la cosiddetta migrazione di tipo congiunturale, che è esplosa con la crisi economico-finanziaria iniziatasi nel 2008 e che emerge con prepotenza nella realtà di Zurigo, i cui fattori di attrazione sono soprattutto le ampie possibilità di trovare un lavoro, i salari molto più elevati che in Italia (e nel resto d'Europa), la sicurezza sociale e la qualità della vita. La dicotomia tra i due gruppi di migranti «non è però così netta come si potrebbe pensare», osserva Mattia Lento: «Nell'ambito della nostra ricerca abbiamo per esempio incrociato una donna 35 enne con dottorato in fisica che non trova occupazione e diversi casi di non corrispondenza tra qualificazione e professione. Conosco inoltre personalmente diversi laureati e dottorandi che vivono il precariato e che fanno molta fatica a sbarcare il lunario, soprattutto in una realtà come Zurigo con i suoi prezzi esorbitanti».


Ma quali fattori spingono questi nuovi migranti a lasciare l'Italia per Zurigo? Che difficoltà riscontrano al loro arrivo nella società e nel mercato del lavoro? Come si relazionano con le istituzioni, con gli altri italiani e con il loro paese? Sono alcune delle domande a cui i racconti delle persone intervistate dai ricercatori forniscono risposte interessanti che in parte fanno emergere importanti differenze con le precedenti generazioni di migranti. Vediamole in sintesi.
I motivi ricorrenti della scelta migratoria sono il lavoro, il venir meno del senso di appartenenza alla città di provenienza e il bisogno di garantire un futuro ai figli.
Nell'accesso al mercato del lavoro la rete sociale (famiglia, parenti, amici) rimane un elemento importante, anche se si fa sempre più affidamento a nuovi canali, come agenzie di reclutamento, annunci on-line, Linkedin e altri social media.
Le condizioni lavorative sono generalmente buone, ma i rapporti sul luogo di lavoro e la possibilità di fare carriera sono differenti a seconda se si lavori in contesti internazionali o in quelli più prettamente locali. Le persone trasferite dall'azienda in un paese straniero (i cosiddetti "expat”) hanno per esempio più possibilità di carriera.
L'impatto con la nuova realtà non sembra evidenziare particolari difficoltà di inserimento (soprattutto a livello burocratico). I due maggiori scogli da affrontare all'arrivo sono quello linguistico e quello relativo alla ricerca di un'abitazione.
Oggi l'italiano è generalmente ben visto in Svizzera, in particolare per la sua mentalità aperta e per l'approccio creativo. Zurigo si rivela particolarmente accogliente: «La nuova migrazione beneficia della buona immagine lasciata dalla precedente ondata di migranti, che erano apprezzati dagli zurighesi per il loro comportamento e per la dedizione al lavoro», ha spiegato Mattia Lento.
La lingua è l'aspetto che influenza di più l'integrazione: la conoscenza del tedesco (meglio ancora del dialetto svizzero-tedesco) è fondamentale sia per aumentare le possibilità lavorative sia per facilitare l'integrazione sociale.
Il tipo di vita sociale varia a seconda dei soggetti: c'è chi resta più legato all'ambiente italiano e/o internazionale e chi cerca di inserirsi nel tessuto locale. In questo un ruolo sempre più importante lo gioca la funzione socio-aggregativa di internet e dei social media, che sin dall'inizio del percorso migratorio garantiscono pure un accesso rapido alle informazioni ed agevolano il mantenimento dei rapporti col paese d'origine.
Il legame con l'Italia rimane forte per ragioni culturali e di affetti, ma la speranza del rientro, a differenza di quanto avveniva con la vecchia generazione di immigrati, non c'è: la maggior parte non prende in considerazione questa eventualità, soprattutto per mancanza di fiducia nell'Italia e per l'assenza di prospettive, data dall'instabilità economica, politica e sociale. D'altro canto, rileva Mattia Lento, i nuovi migranti non prevedono nemmeno di fermarsi a Zurigo.
Il sindacato è praticamente sconosciuto alla gran parte dei nuovi migranti: ritengono di non averne bisogno, anche se potrebbe essere un importante organo di tutela e fungere da punto di riferimento sia nelle prime fasi del percorso migratorio sia per facilitare un eventuale rientro in Italia.
Gli organi di rappresentanza degli italiani all'estero non sono considerati: complice la mancanza di fiducia nella classe politica e nelle istituzioni italiane, gli intervistati non si pongono nemmeno il problema. L'offerta consolare non viene presa in considerazione se non per sbrigare pratiche burocratiche o amministrative e la fiducia nei Comites (i Comitati degli italiani all'estero, organi elettivi che rappresentano gli interessi della collettività italiana) è scarsa: «La maggior parte non li conosce nemmeno e chi li conosce tende ad allontanarsene», commenta Mattia Lento, leggendo questo distacco come un «effetto della lontananza generazionale dalla politica».
Sul passato migratorio c'è poca consapevolezza e i legami con le vecchie generazioni sono piuttosto labili. Viene meno anche il bisogno di fare comunità in quanto italiani: «L'Italia non è più considerata il paese d'origine ma un frammento della propria identità», provano a interpretare i ricercatori.

 

 

Lo studio entra ora nella sua seconda fase

Indagare i processi d'integrazione dei giovani italiani all'estero tra i 18 e i 35 anni e dei giovani migranti (e seconde generazioni) in Italia nel tentativo di capire le ragioni del loro percorso e delle loro aspirazioni, ma anche di comprendere il livello d'inserimento socio-lavorativo e di socializzazione, così come i rapporti con le istituzioni e con la comunità italiane. Questo l'obiettivo dello studio, che nella sua prima parte è consistito in una serie di interviste approfondite a una sessantina di ragazze e ragazzi residenti a Barcellona, Bruxelles, Zurigo, Milano, Napoli e Roma da parte di un gruppo di ricercatori. Ricercatori che, aspetto molto particolare e interessante, si sono scoperti “pari” ai soggetti della ricerca (per età, status, condizione, provenienza ed esperienza personale): «Questo li ha resi allo stesso tempo oggetto e soggetto dello studio», spiega ad area il coordinatore scientifico Emanuele Galossi.
«Finora abbiamo raccolto delle testimonianze che rappresentano lo spaccato di vita di queste persone. Ciò ci è stato utile per elaborare un questionario -lanciato e messo online proprio nei giorni scorsi e scaricabile con il link a fianco- con cui ora vogliamo raggiungere una platea il più vasta possibile ed aumentare così il valore rappresentativo dello studio», afferma Galossi.


Si tratta indubbiamente di un lavoro necessario, perché la nuova migrazione italiana non è un fenomeno di poco conto: nel 2015 se ne sono andati dall'Italia in 102.000, in gran parte giovani tra i 18 e i 39 anni. «Un esodo biblico, testimonianza del fallimento sociale in Italia», ha commentato uno dei ricercatori durante la presentazione dello studio, lo scorso 9 marzo a Zurigo.


Ma finora, mettendo a confronto le testimonianze raccolte nelle varie città europee, sono emerse differenze significative? «Anche se i numeri sono relativi (10 intervistati per ogni città) e i tipi di migrazione variano, sono emerse similitudini nelle risposte. Il gran piacere di raccontarsi, la mancanza di prospettive in Italia, la voglia di fare esperienza e di mettersi alla prova in un contesto nuovo sono per esempio dei tratti comuni», afferma Galossi. E anche la lontananza dal sindacato e dagli organi di rappresentanza, così come l'assenza del bisogno di fare comunità sono elementi comuni ai migranti intervistati e di rottura netto rispetto al passato: per Galossi si tratta di un «dato generazionale che riflette la percezione poco favorevole e la scarsa fiducia che oggi i giovani hanno nei confronti dei partiti, delle istituzioni e delle realtà organizzate in generale. Per quanto riguarda per esempio i rapporti con gli altri italiani, è sì vero che la voglia di fare comunità strutturata in un'associazione o in altra forma è venuta meno, ma poi emerge che nella vita quotidiana si continuano a frequentare italiani, magari insieme a cittadini di altri paesi». «Oggi -conclude Galossi- non c'è poi più la catena migratoria che in passato favoriva il mantenimento dei legami tra conterranei e social media hanno evidentemente influenzato le nuove abitudini».

 

Barcellona è la capitale dell'integrazione
«Barcellona è l'immagine da cartolina dell'accoglienza», ha esordito Davide Perollo presentando la sua ricerca sugli italiani emigrati nella capitale catalana, che oggi è la seconda meta preferita dopo Londra. Dal 2001 a oggi l'immigrazione italiana è cresciuta esponenzialmente in tutta la Spagna (nel 2015 quasi 180.000 residenti contro i 34.000 del 2001), ma soprattutto a Barcellona dove da tre anni a questa parte quella italiana è la comunità straniera più numerosa (quasi 60.000 persone) della città. Moltissimi sono i giovani: secondo l'Istat, negli ultimi cinque anni 100.000 ragazze e ragazzi tra i 22 e i 35 anni hanno fatto questa scelta, in parte anche senza un percorso migratorio strutturato. «La Spagna - ha spiegato Perollo- non è più quella terra di accoglienza di qualche tempo fa, perché le leggi entrate in vigore negli ultimi anni per volontà del premier spagnolo Mariano Rajoy hanno ristretto fortemente le condizioni per soggiornarvi e per accedere ai servizi sociali e alla sanità pubblica. E dunque anche Barcellona è oggi una città meno permeabile, ma resta una terra di ospitalità ancora molto forte e privilegiata dagli italiani, sia per la vicinanza culturale sia per la facilità di integrarsi». Un aspetto quest'ultimo su cui «incide positivamente anche la forte autonomia catalana» rispetto a Madrid, come fa rilevare il ricercatore.
Indagando però sulla realtà lavorativa, emerge anche che a Barcellona tendenzialmente si accettano condizioni che in Italia non si accetterebbero e spesso, con l'obiettivo di racimolare i soldi necessari a ottenere il diritto di residenza ai sensi della legge sugli stranieri, si finisce vittime dello sfruttamento, del lavoro nero e dell'assenza di tutele. «Il paradosso -ha affermato Perollo- è che gli impieghi con queste caratteristiche spesso vengono offerti da alberghi e ristoranti gestiti da italiani, che quindi assumono altri italiani in nero, generando un circolo vizioso».

 

Pubblicato il 

24.05.17