Economia

Se c’è aumento generalizzato dei prezzi (inflazione) il potere d’acquisto diminuisce. Puoi ottenere meno di quanto ottenevi ieri. Per ricuperare il potere d’acquisto bisogna aumentare i salari. Se aumenti i salari aumenti il costo del lavoro e quindi aumenti i prezzi dei prodotti. E allora si commenta, da una parte, quella neoliberista, politica e imprenditoriale, che ciò scateni una spirale (pressi/salari) che non giova a nessuno, ammazza l’economia.

 

C’è anche la « curva di Phillips” che dice la sua. Un economista neozelandese, Philipps appunto, dimostrò, con un  famoso grafico (una curva), che esiste una correlazione negativa tra il tasso di cambiamento dei salari nominali e il tasso di disoccupazione. In termini semplici: i salari aumentano tanto più rapidamente quanto minore è la disoccupazione.

 

Oppure, rovesciando: se vuoi la stabilità dei prezzi, accetta un determinato livello di disoccupazione (o di non tensione sul mercato del lavoro tra domanda e offerta, poiché la maggior richiesta di lavoratori genera una maggior richiesta di salario). Quella curva venne utilizzata come una sorta di ricettario per le politiche economiche, con un grosso dilemma. Se le autorità monetarie o politiche vogliono incrementare l’economia, sostenerne la domanda, muovono il paese verso una maggiore produzione che, con il maggior lavoro impiegato dalle imprese, crea occupazione o diminuisce la disoccupazione.

 

Tuttavia, i maggiori investimenti e consumi indotti, eserciteranno una pressione sui prezzi, ci sarà inflazione. Frenando invece la domanda, gli investimenti (aumento del costo del denaro, dei tassi di interesse), si potrà arrivare a una diminuzione dell’inflazione, ma anche ad un aumento pressoché certo della disoccupazione. Questo è  il dilemma della curva di Phillips, che si riteneva ormai sepolta, ma che ciclicamene ritorna, come  in questi giorni, dovunque.

 

Ecco che lo scorso 11 novembre appare una ricerca del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) svolta su trentotto paesi tra il primo trimestre del 1960 e il quarto del 2021 (periodo non da poco, quindi!) proprio sulla spirale prezzi salari. Lo studio utilizza pure il modello teorico della “curva di Phillips” che collega i salari e i prezzi.

 

Ora, per farla breve, che cosa ne risulta? Risulta che “le spirali prezzi-salari, definite come un’accelerazione continua dei prezzi e dei salari, sono molto difficili se non impossibile da identificare nei dati storici” (v. Working Paper n.ro 22/221 Fmi).

 

L’aumento dei salari nominali, in alcun casi identificati, rimane comunque sempre inferiore a quanto tassi di inflazione e occupazione potevano suggerire.

 

Forse il discorso non è facile e non a tutti accessibile. Riassumiamolo con due conclusioni che ne scaturiscono con chiarezza ed utilità pratica.

 

La prima: come capita spesso nelle scienze economiche i modelli e le teorie, che si sostengono e vendono come  certezze, non descrivono la realtà  e non permettono in nessun caso una predizione affidabile. Quindi, andiamoci piano con la “scienza”, e indaghiamo, sospettando piuttosto costruzioni utili al mantenimemto di un certo sistema economico.

 

La seconda: la non indicizzazione dei salari ha infatti quale unico scopo quello di far sopportare ai salariati il costo dell’inflazione al solo beneficio del capitale. Poiché, come dimostra lo studio del Fmi, non c’è effetto a catena identificabile, significa che la non-indicizzazione serve solo a proteggere i margini di guadagno delle imprese.

 

Visione  comunque perdente per l’economia: abbassando il salario reale, si penalizzano domanda e produzione e si trasforma l’inflazione in recessione.

Pubblicato il 

29.11.22
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