Addio Lugano bella? Arrivederci.

La storia sembra ripetersi: nel 1895 la città aveva scacciato Pietro Gori e gli anarchici, oggi i Molinari. Un saggio ricostruisce i fatti di più di un secolo fa, che presentano similitudini con il presente

Ci sono delle analogie fra quanto accaduto nella notte fra il 29 e il 30 maggio e la canzone “Addio Lugano bella”:  la lotta politica per i propri ideali che si sconta ancora a caro prezzo e il tentativo di silenziare le voci dissidenti. Oggi come allora: nel 2021 come nel 1895 quando gli anarchici furono arrestati ed espulsi dal territorio cantonale. A ricordarcelo la canzone popolare di lotta scritta da Pietro Gori.

 

Pietro non torna indietro.

Non torna indietro, non perché l’avete cacciato da Lugano dopo averlo ammanettato come un ladro. No, non torna indietro dalla sua idea di libertà alla quale dà ancora più spinta facendo ruotare come mulinelli quei pedali. Pietro non torna indietro, non si ferma neppure da morto (possono mai morire gli ideali?) e fa correre in mezzo alle strade la sua voglia di giustizia sociale. Già. Quell’anarchico di un Pietro, il cui spirito è dentro nei mattoni di questa città più di quanto si immagini. L’abbiamo canterellata tutti “Addio Lugano bella”, la canzone popolare scritta proprio dal “ribelle” Pietro Gori, nel 1895, nelle carceri luganesi dove era stato rinchiuso prima di essere espulso dal territorio svizzero. Ah, la libertà, la tolleranza, il pensarla diversamente, il non scendere a compromessi, e, soprattutto, l’aspirazione alla giustizia sociale quanta paura fanno oggi come allora.

 

Il caso vuole, ma guarda un po’ le coincidenze!, che l’avvocato penalista Pietro Gori, tra i più importanti esponenti dell’anarchismo italiano, nel suo esilio luganese, dove arrivò nel 1894 per sfuggire all’ondata repressiva che stava colpendo il movimento nel suo paese, visse proprio in zona Lambertenghi. Vicino, vicinissimo a dove, dopo più di cento anni, si ritroveranno altri uomini e altre donne a lottare per ideali simili.

 

Maggio 2021: siamo a poche centinaia di metri dall’ex Collegio Landriani, dove si trovava l’abitazione di Pietro Gori, che era diventata punto di ritrovo per molti anarchici ed era sorvegliata da spie italiane e dalle forze dell’ordine locali. Poche centinaia di metri dove si ritrovano gli autogestiti che il Municipio di Lugano non vuole più in quel luogo. L’esecutivo gli ha già dato lo sfratto, fino ad arrivare al degeneramento che nessuno si sarebbe mai aspettato dalle istituzioni. Un’opposizione fra autorità e autonomi che nella notte fra il 29 e il 30 maggio si tradurrà in una violenta azione di repressione. La sede degli autogestiti, ospitata in un’ala dell’ex Macello viene abbattuta in una notte di potere violento. “Addio Lugano bella”, vien da sussurrare sottovoce, mentre nel momento in cui stiamo scrivendo i municipali di Lugano stanno sfilando a deporre davanti al Ministero pubblico. La storia si ripete nello stesso perimetro con uno Stato che sorveglia e punisce... l’antagonista.

 

1895/2021: non è vero che Pietro non torna indietro, perché è ancora qui. Svolti l’angolo ed eccolo qui in via Lavizzari 5, non distante dalla sede dei Molinari tirata giù in maniera vigliacca una notte di maggio. Addio Lugano bella, eccolo lì il Pietro Gori, in sella a una bicicletta su un grande murale dipinto sulla facciata di un vecchio stabile che ancora resiste alle ruspe e alla demolizione. Te lo trovi di fronte all’improvviso: grande e grosso, in gilet, cappello e sigaretta in mano: una figura che sprizza energia, vitalità, che non si ferma. Una figura che resta ancora, per certi versi, quasi clandestina: alzi la mano chi sa che quel personaggio, disegnato dall’artista Agostino Iacurci, è Pietro Gori, l’anarchico, arrestato in Ticino e portato al confine con la Germania, la cui ballata, appunto, canticchiamo senza conoscerne la storia. Canzone emozionante, con una “bella retorica” l’ha definita il cantautore Francesco Guccini. Ma al di là della retorica, qual è la sostanza?

 

Ci sono delle analogie fra quanto accaduto nella notte fra il 29 e il 30 maggio e la vicenda degli anarchici di fine Ottocento. Il saggio “Addio Lugano bella. Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani”, scritto dallo storico Massimo Bucciantini e pubblicato da Einaudi, permette di riannodare il filo della storia. Nel libro – e ridagli al caso, ma è stato presentato alla Biblioteca cantonale di Lugano proprio a pochi giorni dal fattaccio – non c’è solo l’Italia di fine Ottocento, ma per certi versi il Ticino attuale: gli antagonisti dello Stato, i “ribelli” fuori dal sistema che si vorrebbe imporre, e lo Stato che controlla e interviene. In mezzo, a unire quella storia, una canzone che è diventata patrimonio comune a tutto il movimento operaio e non solo. La ballata fu scritta da Pietro Gori, nato nel 1865 e cresciuto in Toscana, già da studente universitario iscritto alla facoltà di giurisprudenza di Pisa, snodo centrale nella mappa dell’Italia sovversiva, si distingue subito per impegno politico. In poco tempo – ci racconta Bucciantini in questa biografia – diventa uno dei riferimenti più importanti del movimento socialista anarchico italiano. E lo diventa a tal punto che, seppur ancora giovanissimo, già toglie il sonno ai vari prefetti, questori e ministri del tempo. Nel 1891 si trasferisce a Milano e fonda il periodico “L’amico del popolo”. Nello stesso anno partecipa accanto a Enrico Malatesta al Congresso internazionalista, che viene organizzato in Ticino, a Capolago. Espropriazione della proprietà individuale e abolizione del governo e dello Stato gli obiettivi, che non sono però accompagnati da una critica rigorosa al capitalismo. È l’inizio della rottura tra anarchici e socialisti legalitari, mentre si fa più forte l’esigenza di dar vita a una forza rivoluzionaria organizzata diversa e distante sia dagli individualisti sia dai legalitari. 

 

Pietro Gori, un penalista che spesso dovette difendere sé stesso nelle cause che gli venivano mosse come agitatore politico, era un uomo del dopo Risorgimento, deluso dal fatto che «chi comandava nelle nuove istituzioni aveva gli stessi connotati dei predecessori, mentre chi tornava a ubbidire nella vita quotidiana conosceva le stesse umiliazioni». Nonostante l’Italia fosse diventata nazione, sembrava che nulla fosse cambiato rispetto a prima. Un esempio come simbolo.  Gori restò impressionato da un incidente sul lavoro che capitò all’Elba alla vigilia di Natale del 1885, quando un ragazzino minatore restò sepolto sotto una frana crollata all’interno di una miniera: «Balzò nell’animo mio lo spettro della vigliaccheria umana, una vigliaccheria collettiva che uccide i fanciulli, e che nondimeno i codici chiamano delitto. Da allora il germe anarchico mi si conficcò nel cuore, vi crebbe, e vi divenne gigantesco».

Una vigliaccheria umana contro la quale Pietro Gori combatterà tutta la vita, anche dopo l’esilio dal Ticino fino alla sua morte avvenuta nel 1911 per tubercolosi. E continua a farlo con irriverenza e parole cortesi attraverso la sua canzone.

 

Un avvocato, un poeta, un paroliere, oltre che un anarchico, che sapeva parlare alla pancia della gente e per questo non era sempre ben considerato dai teorici puri come Gramsci. Per Bucciantini si tratta di un «vero e proprio mito», la cui azione  politica non va ridotta allo «stereotipo da leggenda e da canzone popolare».

 

Pietro Gori, colui che proclamava patria “il mondo intero” e aveva come unica legge la libertà. Gori, che in pochi lo sanno, ma è anche cittadino di Lugano. Andate a trovarlo in via Lavizzari e vi sorriderà. Arrivederci.

Pubblicato il

30.06.2021 12:14
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