Addio a Luis Sepúlveda, una vita dalla parte degli ultimi

Nel suo romanzo “L’ombra di quel che eravamo”, uno dei tre vecchi compagni che 35 anni dopo il golpe di Pinochet e gli altri colpi inferti dalla vita si ritrovano a Santiago per fare un ultimo gesto rivoluzionario, ricorda quando da ragazzo lo espulsero dal Partito Comunista sotto l’accusa di “deviazionismo di ultra-sinistra” per le sue simpatie guevariste.
Quel ragazzo era lui, Luis Sepúlveda, lo scrittore cileno morto a 70 anni il 16 aprile a Oviedo, nelle Asturie dove abitava, vittima del coronavirus.


Buttata la tessera del PC ma non le radici che lo avrebbero marcato fino all’ultimo dei suoi giorni: «Profondamente rosso» diceva di sé, orgogliosamente comunista senza che l’epica sovraccarica di coscienza di classe della sua famiglia e le vicende drammatiche della sua gioventù ne abbiano mai intaccato o appesantito la scrittura, le storie, la vita.
Sua madre, Irma Calfucura, infermiera, una mapuche di quegli indios guerrieri della Patagonia che resistettero per due secoli agli spagnoli e ancora si battono per le loro terre ancestrali. Suo padre, cuoco in una trattoria di un quartiere popolare di Santiago, comunista autodidatta. Suo nonno, anarchico fuggito dall’Andalusia per sottrarsi alla vendetta franchista, che gli leggeva Don Chisciotte. A 15 anni Luis aveva già in tasca, quasi ineluttabilmente, la tessera dalla Gioventù Comunista. Ma insieme alla militanza politica cominciava a sentire una nuova pulsione, irresistibile: la scrittura, diventare scrittore. Dirà di sé: «Sono cresciuto in un barrio proletario di Santiago e per quanto nella mia casa ci fossero alcuni libri, soprattutto letteratura di avventure: Jules Verne, Emilio Salgari, Jack London, sarebbe eccessivo dire che si trattava di una biblioteca e ancor più incolpare questi libri innocenti di quello che faccio».


Con Allende alla Moneda entrerà nei Gap, la scorta personale del presidente; arrestato dopo l’11 settembre ’73, incarcerato, torturato, liberato grazie ad Amnesty, esiliato in Svezia dove non arrivò mai perché scese dall’aereo a Buenos Aires; di lì in Uruguay, Brasile, Paraguay, Ecuador dove andò a studiare l’impatto della colonizzazione sugli indios Shuar dell’Amazzonia ecuadoriana, sfondo di quel suo primo “L’uomo che leggeva romanzi d’amore”, del 1988, che lo proiettò di colpo al successo letterario. Nel ’79 si ritrovò in Nicaragua a combattere con i sandinisti, poi lavorò come giornalista e si installò ad Amburgo dove entrò a far parte delle missioni di Greenpeace. Finché, negli anni ’90, mise su casa a Gijón, Nord della Spagna, dopo aver ritrovato il grande amore della sua gioventù, Carmen Yáñez, sposata e perduta nelle convulsioni drammatiche del golpe e della vita, e con lei si sposò di nuovo (“una storia meravigliosa”). Sarà lei, che lo ha assistito fino all’ultimo respiro, a riportarne – quando la pandemia sarà finita – le ceneri in Cile, sulle tracce di Chatwin e Coloane, da spargere nel grande Sud cileno teatro di tante opere di Sepúlveda, da “Patagonia Express” a “Un nome da torero” a “Il mondo alla fine del mondo”. Così da morto ritornerà in quel Cile in cui, pur sempre presente nel cuore e nei libri, non aveva voluto tornare da vivo. Forse troppo doloroso il ricordo e troppo deludente l’uscita – uscita? – dall’orrore pinochetista.
Narratore, giornalista, romanziere, guerrigliero, poeta, ambientalista, scrittore di favole non solo per bambini (la più famosa, “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” in cui compare la frase che forse è la sintesi della sua vita: “Vola solo chi osa farlo”), sceneggiatore per il cinema, best seller da 18 milioni di copie: Sepúlveda è stato tutto questo e altro. Sempre dalla parte degli ultimi, dei perdenti, come un altro grande, l’argentino Osvaldo Soriano, morto nel ’97: «Soriano è mio fratello. I miei perdenti sono fratelli dei meravigliosi perdenti di Soriano», diceva. Entrambi snobbati come intrusi dall’“Accademia” e dai cultori della letteratura “alta” e “pura”.


Luis Sepúlveda, un uomo nato e rimasto sempre «profondamente rosso», un grande scrittore e un bel tipo. Dopo una vita fantastica meritava una morte migliore.

Pubblicato il

23.04.2020 17:44
Maurizio Matteuzzi
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