Ai, l'economia non c'entra

Il dibattito al Consiglio nazionale sulla quinta revisione dell’Assicurazione invalidità (Ai) è durato tre giorni e, nel momento in cui scriviamo, non è ancora finito. Obiettivo della riforma è anzitutto il risanamento finanziario dell’Ai, la quale oggi registra un debito di 7,8 miliardi di franchi. Per conseguire tale obiettivo si vuole tentare non soltanto di creare nuove entrate, ma anche di ridurre di almeno il 20 per cento le nuove domande di rendita e di mettere in atto una serie di misure per incentivare il ritorno ad un’attività lavorativa delle persone parzialmente invalide. Nel corso del dibattito, alcuni punti sono diventati elementi di duro confronto tra i partiti borghesi (con la frequente eccezione del Ppd) e la sinistra, come ad esempio l’imposizione ai datori di lavoro ed alle amministrazioni pubbliche di assumere quote di invalidi. Tale soluzione non è passata; ma a margine del dibattito abbiamo rivolto qualche domanda all’oncologo e consigliere nazionale socialista Franco Cavalli per commentare alcuni aspetti della discussione. Si è fatto spesso riferimento ad abusi, sia da parte dei lavoratori che dei datori di lavoro. A chi vanno maggiormente attribuiti, secondo lei? Sicuramente – e penso di poterlo dire anche in base alla mia esperienza professionale – soprattutto nei momenti di crisi economica i datori di lavoro cercano spesso di risolvere il problema spingendo il proprio impiegato verso l’invalidità. E questa è una cosa che si osserva più o meno chiaramente a seconda dei momenti, però se dovessi fare una graduatoria dei cosiddetti abusi penso che probabilmente metterei al primo posto i datori di lavoro e non tanto i lavoratori. Dunque, sarebbe giusto imporre ai datori di lavoro l’obbligo di collaborare alla reintegrazione degli invalidi nel mondo del lavoro… Indubbiamente. I datori di lavoro non possono sfruttare la manodopera solo dopo averla fatta formare da altri e solo durante il periodo che è nella forma fisica migliore. Anche perché buona parte dell’invalidità, sia fisica che psichica, è sicuramente in relazione con il tipo di lavoro svolto ed è più o meno forte a seconda del grado d’intensità di questo lavoro. Quindi, penso che questo non è un problema solo individuale, ma è un problema in buona parte sociale e legato al mondo del lavoro, per cui i datori di lavoro vi hanno una responsabilità diretta. Imporre ai datori di lavoro di collaborare alla reintegrazione significa causar loro oneri supplementari. È d’accordo che sia lo Stato a farsi carico di questi maggiori oneri? Ritengo che sia giusto imporre ai datori di lavoro, come per l’Avs, degli oneri anche per l’invalidità, dove il problema è molto simile ed è parallelo. Che poi in situazioni particolari possa intervenire anche lo stato ad aiutare i datori di lavoro, questo può essere pensabile. Però, credo che globalmente la responsabilità debba essere divisa tra lo stato e i datori di lavoro. Un altro aspetto molto discusso è stato quello dell’imposizione, respinta dalla maggioranza borghese, di quote d’invalidi nelle amministrazioni pubbliche e nelle aziende con almeno 100 dipendenti. Anche qui dico: se vogliamo evitare che la gente diventi troppo presto invalida e che quindi alla fine il carico finanziario diventi troppo alto perché diverse di queste persone non lavorano più, dobbiamo favorire il loro reinserimento nel mondo del lavoro, tenendo conto dei loro problemi. E questo non si fa, non si è mai fatto e non sarà mai fatto automaticamente. Quindi, tutto sommato per la comunità è meno caro imporre delle quote ed obbligare i datori di lavoro, privati o pubblici, ad assumere una certa parte di persone a rischio d’invalidità o con una capacità lavorativa ridotta, piuttosto che metterle completamente in invalidità. Si è parlato anche della responsabilità dei medici. Lei pensa che un maggior rigore in questa legge porti, com’è stato paventato, a disturbare o rompere il rapporto di fiducia tra medico e paziente? Se la legge diventa troppo severa e il medico è costretto a fare un po’ il “poliziotto” della società che alla fine deve obbligare qualcuno a essere invalido o ad andare in una certa direzione, questo è qualcosa che indubbiamente disturba il rapporto di fiducia che ci dev’essere tra il medico e il paziente. Ma se già certe decisioni devono essere prese a livello di commissioni mediche esterne e non dal medico singolo, non si può pretendere che il medico singolo prenda delle posizioni che il proprio paziente non può comprendere o che vanno assolutamente contro la situazione psicofisica del proprio paziente. Quindi, è fuori luogo parlare, in questo caso, di messa a rischio del rapporto di fiducia tra medico e paziente. Sicuramente.

Pubblicato il

24.03.2006 01:30
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