Alfonso Tuor:

Alfonso Tuor cosa ne pensa dei movimenti no-global? Come ogni forma di espressione è meritevole di per sé, sono favorevole a tutti coloro che manifestano. Provocano discussione, criticano qualcosa – la globalizzazione – che è degno di essere criticato per le pesanti ripercussioni che ha sulla vita di noi tutti. Sia per il Nord che per il Sud di questo pianeta. Tuttavia ci sono anche dei “ma” su questi movimenti che bisogna sollevare… Quali? Sotto lo stesso tetto ci sono diverse correnti che fra di loro sono decisamente incompatibili. Hanno però un punto in comune. Una somiglianza che a mio avviso è il vero nocciolo della questione e allo stesso tempo la debolezza del pensiero di questi movimenti. Checché se ne dica la maggior parte degli altermondialisti ha questo tipo di convinzione di fondo: “la globalizzazione economica non è negativa di per sé, può aiutare i paesi poveri a stare meglio. Solo bisogna porre delle regole del gioco chiare per domare il cavallo senza briglie. La globalizzazione non va bene perché non ci sono delle buone regole fra gli Stati. Noi vogliamo che vengano imposte leggi in sede internazionale”. Questa è la conclusione, sbagliata secondo me, del no-global. Che sia no-global di stampo ecologista, sindacalista o quant’altro, non cambia niente, quasi tutti ragionano in questa maniera. Loro vogliono regole internazionali, un desiderio che è pura utopia. Nessuna legge “utopia” può regolamentare la globalizzazione? Non esiste un’organizzazione internazionale in grado di prendere in mano le redini? Assolutamente no, guardiamo alla nostra piccola realtà. Quanti anni ci sono voluti per trovare un’armonizzazione fiscale fra 26 cantoni? Non mi si venga ora a dire che si può giungere in tempi accettabili ad accordi fra grandi nazioni. Il tempo stringe e nel lungo periodo – in attesa del miracolo – saremo tutti morti. In questo contesto economico dei mercati aperti ogni Stato cerca di essere vincente e gioca tutte le carte che ha in mano. Sono le “non regole” della globalizzazione. Mentre aspettiamo la realizzazione dell’utopia il mondo intero paga un prezzo troppo alto. Questa globalizzazione sta destabilizzando le nostre vite. In Svizzera cominciamo ad accorgerci solo di recente dei suoi effetti nefasti. E il disagio è crescente. Ci perdiamo tutti in questo gioco malato ed è ora che ce ne rendiamo conto. Ma cosa si può fare contro un simile fenomeno? Siamo schiavi di questa realtà globalizzata. Per non farne parte ci si dovrebbe ritirare sul monte ma anche lì la zappa per arare l’orticello sarebbe probabilmente prodotta in Asia... Sulla schiavitù sono d’accordo ma lei parte da alcuni presupposti che bisogna minare. Facciamo un passo indietro. Partiamo da una domanda: la globalizzazione, quella che viviamo oggigiorno, è un fenomeno che si è creato da solo o che è stato voluto? La mia risposta è che è stata fortemente voluta. La globalizzazione non è un’evoluzione naturale delle nostre economie, ne sono convinto, ma il risultato di un processo politico di stampo liberista perseguito in maniera ferrea. Non mi chieda da chi, non ho nomi e cognomi da fare. Sono politiche che hanno preso forza negli anni Ottanta e che hanno cominciato da una decina di anni a produrre i loro effetti perversi. Perché si è voluto innescare questo processo? Sulla base di alcune convinzioni ideologiche che si possono riassumere in questo modo. Primo: si era convinti che i mercati dei paesi industrializzati erano saturi, che ci volevano nuovi consumatori. Ma in questi paesi si doveva prima formare un adeguato potere d’acquisto. Quindi prima si doveva dargli sostegno per crescere di modo che poi avrebbe acquistato i nostri prodotti. Secondo: i politici erano persuasi che al male- inflazione, provocato a loro avviso dallo strapotere dei sindacati o dei partiti a dipendenza dei paesi, si potesse porre rimedio aprendo le frontiere ad altri lavoratori. In questo modo le relazioni di forza sarebbero subito cambiate. Ed è ciò che effettivamente è successo. Il potere di organizzazione dei lavoratori ne è uscito indebolito. La scommessa era questa quindi: quella di pensare che grazie alla domanda dei paesi emergenti le economie sarebbero cresciute e che il prezzo da pagare sarebbe stato ricompensato ampiamente dalle esportazioni. Ma le cose non sono andate così, la scommessa è stata persa. Quali sono stati gli effetti allora? Ci hanno sempre detto che con la globalizzazione saremmo diventati tutti più ricchi. Più ricchi? Una bugia costruita ad arte. La globalizzazione ha inciso sui livelli salariali e sull’occupazione nei nostri paesi. Abbiamo un potere d’acquisto diminuito e un aumento del numero di disoccupati. Sono effetti talmente dirompenti che in realtà abbiamo un’erosione delle economie e non una loro crescita. Sintomatica di questa situazione è la crescente differenza fra i redditi. La globalizzazione è socialmente una iattura. Mette in crisi i nostri stati sociali. Ma non è solo una iattura sociale, è anche una scommessa persa per l’economia. E anche se non lo si dice, sono sempre più i governi che cominciano a pensarlo. I centri di potere cominciano a tirare i remi in barca in attesa del brusco arresto. Ci sono segnali di questa inversione di tendenza? Una volta si vendeva a tutti la ricetta della globalizzazione bella perché ci fa stare tutti meglio, aiuta i paesi in via di sviluppo e arricchisce ancor di più noi. Bastava cambiare mentalità, quanto era bello essere internazionali. Ora invece alla gente viene detto che il processo è irreversibile, che ormai il cavallo è in corsa e che non lo si può più fermare. C’è già una differenza, dal credo quasi religioso all’ineluttabilità di una situazione che non si può più modificare. Ci sono anche altri segnali però, questa volta vengono dall’economia. Le faccio un esempio su tutti. Le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) vengono sempre più scavalcate. Ora stanno proliferando gli accordi commerciali preferenziali fra una ristretta cerchia di paesi. Non è più apertura dei mercati a tutti, ma a chi si vuole. Si stanno formando dei blocchi commerciali. Le nazioni, anche se non lo dicono apertamente, si rendono conto che il processo non durerà, che non è sostenibile e cominciano a muoversi per uscire dalla corsa. Che effetto avrà sulla nostra vita la fine della globalizzazione? L’uscita dalla globalizzazione sarà dolorosa, ci siamo spinti troppo avanti. L’arresto arriverà a mio avviso dagli stessi Stati Uniti che ricorreranno al protezionismo non appena ne avranno la possibilità, lo fanno già ad esempio con il settore dell’acciaio. La locomotiva Usa non funziona più, ha perso velocità. La loro ripresa è totalmente “drogata”, non sono più in grado di creare posti di lavoro. Lo spauracchio di una pesante recessione mondiale non è solo una mera ipotesi. Ci sono anche altri scenari però, molto più distruttivi e traumatici, che potrebbero rovesciare la situazione. Il malessere sociale e le tensioni sono crescenti. Un’altra cosa: si crede davvero che gli Stati Uniti saranno disposti a farsi superare dalla Cina? Non c’è mai stata una potenza che ha permesso ad un’altra di emergere pacificamente.

Pubblicato il

28.01.2005 02:00
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