All'impresa piaci flessibile

Una parola sola avrebbe dovuto risolvere ogni male: flessibilità, in Svizzera come in Europa. Essere flessibili nel modo di pensare ma non solo. Flessibilità fa rima con precarietà e così si deve avere le valige sempre pronte per cogliere al volo l’occasione ma soprattutto essere ben disposti nei confronti di un contratto di lavoro “atipico”. Cioè di quel tipo di impiego che non dà garanzie e che è agli antipodi della concezione del mestiere per la vita. Oggi, si dice ancora, c’è bisogno di ampia disponibilità: elastici sugli orari di lavoro, accomodanti sullo stipendio (meglio lavorare che la vergogna della disoccupazione), senza troppe pretese sulla qualità delle mansioni da svolgere e infine privi di un progetto di carriera e di vita. Agli imprenditori piaci così. Ma quali sono stati gli effetti sul lavoratore di questa ondata di flessibilità nella vecchia Europa? E poi: si è davvero riusciti a diminuire la disoccupazione e a rilanciare l’economia grazie al lavoro precario? I risultati di questo primo decennio di flessibilità non sono affatto incoraggianti. Non per i lavoratori almeno e neppure per l’economia. Lo dicono i dati pubblicati dall’Unione europea che testimoniano da una parte il crescente malessere fisico e psichico del lavoratore atipico, e dall’altra la sempre alta disoccupazione e la mancata ripresa dell’economia. Nessun miracolo per ora quindi. La flessibilità non ha moltiplicato né i pani né i pesci. Sulla bontà della precarizzazione del lavoro per il bene collettivo – cioè la diminuzione della disoccupazione e un mercato più performante – non lascia dubbi neppure lo studio svolto dall’economista Christian Marazzi e la ricercatrice Angelica Lepori in seno alla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (Supsi) e su mandato del Dipartimento sanità e socialità che hanno analizzato la flessibilità dal punto di vista dell’imprenditore. E i risultati – presentati in un convegno a Lugano la settimana scorsa – parlano da soli (vedi articolo centrale). Ma il peccato originale è stato europeo. La mela si chiama “European Employement Strategy” (Ees), la strategia europea per il lavoro che è stata adottata a partire dal 1997. Obiettivo? «Si sono voluti eliminare quelli che venivano chiamati in maniera colorita e con una punta di asprezza “lacci e lacciuoli” del mercato del lavoro europeo – ci ha detto Paola Villa, professore di economia industriale all’università di Trento –. La speranza era quella di ridurre la disoccupazione grazie alla deregolamentazione. È stata però dimenticata la dimensione dell’individuo, ci si è concentrati sul problema istituzionale tralasciando gli effetti sul lavoratore. Solo recentemente l’Ue ha cominciato a mettere in discussione la qualità del lavoro precario». Ma allora il metro di misura erano gli Stati Uniti. L’Europa degli anni Novanta – e anche quella di oggi – era alle prese con una disoccupazione crescente e un basso tasso di crescita del Pil. L’Europa in difficoltà si confrontò coi cugini d’oltre oceano che sembravano navigare in acque più dolci. Una tranquillità, secondo l’interpretazione prevalente, dovuta al loro mercato del lavoro da sempre flessibile, con sindacati deboli e l’assenza di contratti collettivi, con la facilità di licenziare da parte delle imprese e l’alta mobilità dei lavoratori disposti a cambiare spesso datore. Come rilanciare allora la vecchia Europa? «Imitando. Questa è la soluzione che sembrava più semplice, per molti è ancora l’unica via anche se cominciano a spuntare i “ma” – spiega Paola Villa –. Il risultato è stato appunto l’elaborazione di una prima strategia della flessibilizzazione del lavoro». Una strategia affinata a Lisbona (2000) e Stoccolma (2001) che ha degli obiettivi espliciti. Primo fra tutti quello di aumentare il livello di occupazione della popolazione europea. Ma non si voleva mica diminuire la disoccupazione? Anche se può sembrare paradossale, uno dei problemi della competitività dell’Europa – dicono gli strateghi – è il basso livello di occupazione delle persone fra i 15 e i 64 anni. Gli europei sarebbero “pigri” a confronto degli americani, solo 6 su 10 di loro sono attivi professionalmente (negli Usa 7 su 10). Il ragionamento che sta alla base della Ees è di questo genere: un’Europa con più occupati produce di più, l’economia più competitiva cresce ed è in grado di impiegare un numero maggiore di persone, risultato: meno disoccupazione. Un circolo virtuoso presumibilmente oliato dalla flessibilità. Un sogno che l’Ue vorrebbe concretizzare nei seguenti obiettivi per il 2010: tasso di occupazione della popolazione in età lavorativa di almeno 7 persone su 10, almeno 6 donne su 10 devono essere nel mercato del lavoro e infine non meno 5 anziani su 10 lavorare. Torniamo all’attualità. Cosa è successo in questi anni? L’Ue è davvero riuscita ad aumentare i tassi di occupazione – grazie soprattutto ai contratti flessibili – anche se gli obiettivi 2010 sembrano difficilmente raggiungibili. Il rovescio della medaglia, e il fallimento del modello della flessibilità, è che la disoccupazione è rimasta sempre alta e l’economia è al palo. «Non solo, l’analisi della dinamica dei lavori atipici è allarmante sotto molti punti di vista – conclude Paola Villa –. Dopo 6 anni di lavoro precario un lavoratore su 3 non è ancora riuscito a migliorare la propria situazione passando a un lavoro più sicuro. O è ancora occupato in modo temporaneo o è uscito dalla vita professionale. Anche sotto il punto di vista della remunerazione la situazione non è incoraggiante. Dopo 7 anni di bassi stipendi la metà dei precari non è ancora riuscita a migliorare la propria retribuzione. Sono dati allarmanti che vengono dalle stesse statistiche Ue». «Da più parti si è sostenuto e si sostiene che per far fronte alla crisi economica e per diminuire la disoccupazione occorre deregolamentare il mercato del lavoro. Seguendo questa logica in tutti i paesi del mondo si sono approvate e si approvano riforme che hanno precarizzato il lavoro». Non ha usato mezzi termini l’economista Christian Marazzi durante il convegno svoltosi settimana scorsa a Lugano in cui è stato presentato uno studio, condotto insieme alla ricercatrice Supsi Angelica Lepori, sulla flessibilità. Non ha avuto peli sulla lingua neppure Patrizia Pesenti, direttrice del Dipartimento sanità e socialità mandatario della ricerca, che ha aperto la giornata di studio: «La somma di tanti impieghi precari non portano lontano. Anzi la precarietà, l’insicurezza e la paura hanno effetti deleteri sullo stato di salute delle persone» (vedi editoriale in prima pagina). Questa volta la flessibilità è stata però analizzata dall’osservatorio delle imprese. La precarietà è diffusa secondo i dati raccolti su un campione di 507 imprese ticinesi. Solo il 22 per cento di loro afferma infatti di non fare uso di nessuna forma di lavoro atipico. Ciò significa che per la maggioranza di loro la flessibilizzazione del lavoro è realtà di tutti i giorni «inevitabile e ineluttabile». Inoltre un terzo di loro vorrebbe aumentare la quota di lavoro precario all’interno della ditta. «Non c’è bisogno di amare la flessibilità, la subisci e la applichi perché sono i clienti a richiederla e la tendenza è ad andare sempre più in questa direzione», questo il commento di uno degli imprenditori intervistati. Ma cosa spinge un’azienda a fare ricorso al lavoratore precario? I bisogni economici, senza ombra di dubbio. Il lavoratore precario è soprattutto un “tappabuchi”. A conferma di ciò ci sono anche i dati a livello europeo che mostrano come i contratti atipici rappresentano le estremità della fisarmonica dell’economia (vedi articolo a lato). Nei periodi di espansione economica il precario è utile per aumentare la capacità produttiva, ma quando le acque si fanno agitate è il primo ad essere buttato fuori dalla barca. La flessibilità del lavoro è quindi essenzialmente una risorsa nelle mani degli imprenditori e non uno strumento di creazione occupazionale. «Grazie alle interviste abbiamo capito che la flessibilità ha diverse facce. Non c’è solo la flessibilità del lavoratore interinale, quello chiamato dall’agenzia di turno – ha detto Marazzi –. La flessibilità è anche interna, le stesse aziende ci hanno detto che si sono modificate le quantità di lavoro, dei ritmi e delle competenze richieste al personale». Più lavoro o lo stesso ma svolto da meno dipendenti che si accollano sempre più “nuove sfide”. E non solo nel settore privato ma anche in quello pubblico: «non si fa più un’analisi critica del fabbisogno di manodopera, ma si parte dai costi del personale che occupano circa il 30 per cento della gestione corrente e che devono rimanere sotto controllo o addirittura regredire», a dirlo un addetto alle risorse umane dell’amministrazione pubblica. Non conta la mole di lavoro, l’importante è arginarne il costo. Chi è il lavoratore atipico in Ticino? «Soprattutto giovani con un livello di qualifica medio basso – dice Lepori –, e questo è vero soprattutto per le forme più precarie, come il lavoro interinale o i disoccupati che beneficiano delle misure di reinserimento professionale». Un altro dato interessante emerso dallo studio, ha fatto notare Marazzi, è che il 67 per cento degli imprenditori interrogati si è detto disposto ad estendere l’applicazione dei contratti collettivi e il 63 per cento di loro pronti a introdurre un salario minimo legale, «una chiara indicazione per la classe politica al male della precarizzazione», ha detto l’economista.

Pubblicato il

25.02.2005 01:00
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