Parità

In Ticino c’è chi chiede di far rispettare la quota minima del 30 per cento del sesso meno rappresentato (solitamente le donne) ai vertici del settore pubblico e parapubblico, uno strumento efficace per far uscire dall’ombra i talenti femminili e dar loro la possibilità di dimostrare sul campo le proprie abilità.

 

A breve il Gran Consiglio ticinese dovrà discutere una proposta di legge che ha letteralmente spaccato in due il Parlamento e che chiede di garantire almeno il 30 per cento del sesso meno rappresentato nei posti dirigenziali, nei consigli d’amministrazione (CdA) pubblici e parapubblici e, nel caso le regole non vengano rispettate, che l’ente in questione debba formulare per iscritto il perché non ha raggiunto tale quota. Daria Lepori (Ps), relatrice del rapporto favorevole alla proposta, spiega che: «In realtà il Cantone ha già emanato un regolamento concernente le commissioni, i gruppi di lavoro e le rappresentanze presso enti di nomina del Consiglio di Stato, regolamento che dal 2012 prevede anche una norma relativa ad un minimo del 30 per cento di rappresentanza dell’uno o dell’altro sesso, norma che però non è vincolante e che nessuno di fatto controlla se viene messa in atto o meno».

 

Questo stato di cose rende anche difficile raccogliere dati su quante donne e quanti uomini occupano posti dirigenziali al momento e quindi monitorare la situazione. Ma perché introdurre delle quote? È oramai assodato che avere una più equa rappresentanza tra uomini e donne in questi gremi è positivo sotto diversi aspetti, ma è anche risaputo che per le donne è più complicato accedervi per una serie di motivi riconducibili al fatto che viviamo in una società ancora patriarcale, perciò per arrivare all’obiettivo di avere dei team più equamente rappresentati occorre un intervento esterno che permetta alle donne (e in alcuni casi anche agli uomini) di dimostrare le loro capacità e le loro idee. «Non si tratta di voler dare più potere alle donne, le quote sono semplicemente uno strumento utile per andare verso l’obiettivo di un’equità reale a tutti i livelli. Credere che basarsi sulle competenze sia sufficiente a promuovere le donne nelle posizioni dirigenziali è illusorio», spiega Lepori, che fa anche presente come dall’introduzione, nel 2012, della clausola del 30 per cento, la situazione sia già un pochino migliorata e la presenza di donne con posizioni dirigenziali sia aumentata nell’amministrazione cantonale passando dal 7,5% del 2005 al 20,8% del 2019.

Secondo i dati di marzo 2020, nelle 172 rappresentanze negli enti di nomina del Consiglio di Stato, la presenza femminile è del 15,2% (50 donne su 329 cariche), ma con grosse differenze tra i vari Dipartimenti: nei settori legati al Dipartimento educazione cultura e sport la presenza di donne è già oltre la quota del 30%, con un 33,8%; nei settori della sanità e della socialità (Dipartimento sanità e socialità) scende al 22%; al 13% per gli ambiti economici (Dipartimento finanze ed economia) e un vergognoso 3,7% per il Dipartimento del territorio. «Non è più ammissibile oggi la scusa che si fatica a trovare donne formate per determinati ambiti, sappiamo bene che le donne sono mediamente più formate degli uomini e che ce ne sono molte anche con formazioni scientifiche, va quindi fatto qualcosa per renderle visibili», prosegue Lepori.

 

E a livello svizzero come siamo messi? Cosa hanno fatto la Confederazione e gli altri Cantoni in questo senso? Da gennaio 2021 le grandi imprese quotate in borsa con sede in Svizzera devono raggiungere il 30% di donne nei CdA e il 20% ai livelli manageriali più alti. Una misura che è stata inserita nell’ambito della riforma del diritto della società anonima con lo scopo di rafforzare la presenza femminile nelle cariche dirigenziali. Una legge che interessa circa 250 imprese, ma che non prevede sanzioni, perdendo così una buona dose di potere dissuasivo. È però previsto, come si chiede anche nel caso del Ticino, un rapporto scritto che spieghi il perché gli obiettivi non sono stati raggiunti ed eventualmente illustri le misure previste per rimediarvi. Secondo Daria Lepori, questa misura ha comunque il vantaggio di spingere le aziende a riflettere sulle loro pratiche di selezione e capire se sono effettivamente inclusive o meno e i Cantoni che prevedono questa richiesta di spiegazioni sono riusciti ad implementare la presenza femminile.

Basilea Città è stato il primo Cantone a introdurre un sistema di quote di genere del 30% negli organi di vigilanza delle società pubbliche e parapubbliche: in questo caso i Dipartimenti hanno rivisto il loro processo di selezione dei candidati ampliando il raggio di ricerca affinché più figure femminili potessero essere scelte e al 1° gennaio 2020 tutte e 22 le società partecipate dal Cantone adempiono a una quota di genere del 30% per quanto concerne le nomine di competenza governativa. L’obiettivo è quindi stato raggiunto. Lo stesso vale per il Canton Berna, che nel 2014 ha introdotto una quota del 40% a livello di quadri dell’Amministrazione cantonale, mentre non è riuscito a raggiungere il 35% negli organi dirigenziali delle aziende partecipate dallo Stato. Altri cantoni ci hanno provato o ci stanno provando (Lucerna, Giura, Vaud, Ginevra), ma non ci sono dati chiari al riguardo.

 

Sta di fatto che al momento attuale la presenza delle donne tra i quadri dirigenti è insufficiente: nei CdA delle cento più grandi imprese del Paese su dieci membri solo due sono donne, mentre se ne trova solo una su dieci ai vertici. Per cambiare le cose e arrivare ad una società che abbia realmente una partecipazione condivisa tra i generi (perché le donne non sono una categoria sociale, ma rappresentano più della metà del genere umano), servono strumenti che aiutino le donne ad arrivare a poter dimostrare sul campo quello che sono in grado di fare: rifiutare l’idea che esistano delle discriminazioni nei loro confronti non è un’opinione, ma semplice mancanza di conoscenza e non aiuta certo a progredire. Le quote di genere non sono la bacchetta magica per una società più inclusiva e paritaria, ma sicuramente (e gli studi internazionali lo dimostrano) un valido strumento in questa direzione, dopodiché anche le altre condizioni quadro vanno ripensate perché ancora troppo spesso la ragione principale per la quale le donne non fanno carriera è la famiglia. Ci sono infatti più donne in posizioni manageriali nei paesi in cui lavoro e vita famigliare sono facilmente conciliabili e, in quest’ottica, la Svizzera offre alle donne condizioni quadro significativamente peggiori rispetto a Paesi come ad esempio la Scandinavia.

Pubblicato il 

07.02.22
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