Americani al voto

A New York, a Time Square, accanto ai grandi pannelli luminosi che inneggiano al dio consumo o alla ricchezza americana ce n’è uno più modesto: indica l’importo del deficit pubblico americano. Le cifre viaggiano a velocità sostenuta e, secondo dopo secondo, ci si rende conto che il buco sta diventando quanto mai profondo. L’America, che chiede al mondo rigidità finanziaria e bilanci in pareggio, non sa dare il buon esempio. La crisi e le spese provocate dal dopo 11 di settembre, ma soprattutto i tagli d’imposta voluti dal presidente George Bush appena giunto alla Casa Bianca, hanno fatto sì che in poco tempo conti in attivo finissero profondamente in rosso. Il debito pubblico comunque non è un tema centrale nella campagna elettorale di mezzo termine che sta per concludersi. Il 5 di novembre l’elettorato degli Stati Uniti rinnova la camera dei rappresentanti, un terzo del senato e 36 seggi di governatore. Tra repubblicani e democratici è in atto una battaglia all’ultimo voto. Infatti, a giudicare dai sondaggi, il paese, come due anni fa, sembra perfettamente diviso tra democratici da una parte e repubblicani dall’altra. Come allora, ogni voto conta. Lo sa benissimo il presidente Bush, che non perde occasione per andare in soccorso dei candidati chiave di questa elezione. I repubblicani con alla testa il presidente vogliono conservare la maggioranza in congresso e riconquistare quella persa in senato per la defezione di un senatore del Vermont. I democratici, dal canto loro, vogliono almeno salvaguardare lo statu quo. Anche questa volta, come due anni fa, i sindacati si stanno dando molto da fare. Per certi candidati l’appoggio dei lavoratori è cruciale per raggiungere il successo. Un esponente democratico del Maryland, Christopher van Hollen, che spera di strappare ai repubblicani un seggio in congresso, dopo aver vinto le primarie come prima mossa è andato a bussare in casa sindacale chiedendo quel sostegno che i rappresentanti dei lavoratori avevano, fino a quel momento, promesso al suo rivale di partito ormai fuori gioco. I sindacati vogliono mandare in parlamento persone in grado di difendere gli interessi dei lavoratori, sempre più minacciati da un’amministrazione che ha orecchie poco attente per le richieste della principale organizzazione sindacale del paese. Bush, che due anni fa aveva garantito di essere il presidente che “unisce e non divide”, sta di fatto snobbando la principale organizzazione sindacale americana: l’Afl-Cio diretta da John Sweeney. La Casa sindacale americana, che vanta circa 13 milioni d’iscritti, dista solo pochi isolati dalla Casa Bianca, ma sembra una distanza insormontabile. I dirigenti sindacali che piacciono al presidente sono quelli che hanno voltato le spalle all’Afl-Cio. Bush non perde occasione per farsi vedere in compagnia di Douglas J. McCarron, il presidente del sindacato dei carpentieri (conta circa mezzo milione di iscritti), che nel 2000 ha lasciato l’Afl-Cio disapprovando la sua politica filo-democratica. McCarren è il sindacalista che Bush ascolta. Lo ha invitato in agosto a rappresentare il mondo del lavoro al famoso vertice di Waco, in Texas, per discutere di economia. Il presidente era al suo fianco anche all’inizio di settembre per festeggiare il Labor day, una sorta di primo maggio americano. L’attuale amministrazione ha una buona relazione anche con il sindacato dei camionisti diretto da James Hoffa, figlio del sindacalista Jimmy Hoffa, scomparso nel nulla negli anni ’70 e sospettato di avere legami con la mafia. I dirigenti sindacali dei camionisti non nascondono le loro simpatie per le idee di Bush. Erano per esempio favorevoli alle trivellazioni in Alaska, perché questo avrebbe garantito loro lavoro, e appoggiano la creazione di una rete di “informatori” per aiutare le autorità nella lotta al terrorismo. In queste ultime battute della campagna elettorale i sindacati puntano il dito sui progetti che Bush e repubblicani sperano di realizzare. «Se vincono avremo una social security (una specie di Avs creata nel 1935 per garantire una sicurezza economica agli anziani) che aiuterà più Wall Street che i pensionati» affermano i sindacati nei loro appelli ai lavoratori a consultare la lista dei candidati che godono della fiducia dei rappresentanti dei lavoratori. In ballo vi è in particolare l’idea di privatizzare in tutto o in parte questo sistema sociale. Per i fondi d’investimento questa sarebbe una vera manna. I sindacati temono il peggio anche per la riforma sanitaria o per il futuro delle scuole pubbliche. Nei loro volantini o negli spot pubblicitari le organizzazioni dei lavoratori ricordano ai loro membri come è peggiorata la loro situazione in questi primi due anni di presidenza Bush. Dal 2000 ad oggi sono andati persi circa due milioni di posti di lavoro. Quasi un milione e mezzo di persone oltre al lavoro ha perso anche l’assicurazione malattia. In America ci sono un milione di poveri in più. Molti anziani sono costretti a ritornare a lavorare perché la Borsa ha bruciato tutti o buona parte degli averi della cassa pensione. Le dure conseguenze degli scandali che hanno interessato imprese importanti come la Enron o la WorldCom sono un tema ricorrente nei messaggi che i sindacalisti vanno portando da un capo all’altro del paese. Vogliono che il Congresso adotti misure chiare affinché questi scandali non si ripetano e i manager siano chiamati a rispondere penalmente degli errori che commettono. Mentre i lavoratori stringono la cinghia, alcuni ex dirigenti, che avevano gonfiato le famose bolle speculative, continuano a vivere in ville lussuose o a godere di privilegi da veri nababbi. È questo che i sindacati vogliono cambiare, ma riuscirci non sarà facile. Le campagne elettorali Usa costano Le campagne elettorali americane sono sempre più care. Raccogliere soldi è una costante preoccupazione per chi decide di buttarsi in politica. Le decine di apparizioni che il presidente ha fatto durante questa campagna elettorale in giro per il paese erano prima di tutto finalizzate ad aiutare i candidati repubblicani chiave a raccogliere soldi. Si calcola che nell’ultimo anno Bush sia riuscito a portare nelle casse del suo partito o di candidati repubblicani circa 140 milioni di dollari. Questi soldi si rivelano indispensabili soprattutto nell’ultima fase della campagna elettorale, quando gli spot pubblicitari diventano il mezzo più importante e talvolta il solo per far passare un certo messaggio. È così che si cerca di far sapere all’elettore distratto che cosa s’intende fare o che cosa si è fatto negli ultimi anni. Per contendenti a corto di idee o di programmi innovativi è un modo efficace per mettere in cattiva luce il rivale, per strombazzare quello che non ha fatto o per accusarlo di non aver votato per questo o per quella modifica di legge. Le accuse diventano talvolta lo spunto per giornalisti locali per indagare sulla verità. Questi messaggi, che contengono molto spesso solo mezze verità, riescono ad attirare l’attenzione di un pubblico che sembra sempre meno interessato alla politica. Una recente indagine ha dimostrato che i giovani tendono sempre più a disertare le urne. Questo spiega in parte perché i temi sentiti e dibattuti più spesso siano quelli che interessano gli anziani. Di droga in America si parla poco o niente. Il cittadino spesso si accorge che è ora di andare a votare soprattutto perché rispuntano vicino al ciglio della strada cartelli in favore di questo o quel candidato. In città, molti cartelli con i nomi dei contendenti sono incollati ai pali della luce magari vicino ad un semaforo in modo che la gente li veda. Molte auto si riempiono di adesivi in favore di un qualche contendente. Gli spot pubblicitari appaiono soprattutto nell’ultima fase della campagna. In queste settimane basta sintonizzarsi con una qualsiasi catena per venire bombardati da mini-storie più o meno positive di candidati e candidate. Questa è un’arma che può portare al successo solo se si dispone di tanti mezzi. Lo si è visto a New York dove l’attuale sindaco l’anno scorso ha bombardato la città con oltre sei mila spot contro i due mila e 500 del suo avversario. Non tutti possono permettersi questo lusso, ma cambiare le regole è praticamente impossibile.

Pubblicato il

01.11.2002 08:00
Anna Luisa Ferro Mäder
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