A 30 anni dal divieto

I sindacati svizzeri sulla tragedia dell’amianto sono intervenuti con ritardo, ma la loro azione è stata determinante per accelerare il processo che ha portato alla messa al bando, il 1° marzo 1990. È l’analisi contenuta in un interessante documento pubblicato dal sindacato Unia a trent’anni esatti da quella svolta – si legge – «tutt’altro che scontata» per il paese dove aveva sede la Eternit AG, gigante mondiale dei prodotti in cemento-amianto.

Come si è arrivati al divieto? Come si sono comportati i vari attori coinvolti? Come è cambiato il lavoro sindacale dopo il 1990? Quali sono i risultati conseguiti in favore delle vittime? Come affrontare le sfide che ancora ci attendono per fronteggiare un problema sempre attuale? Sono alcune delle questioni affrontate dagli autori del documento Vasco Pedrina (che fu responsabile della campagna sindacale per la messa al bando e tra gli attori della tavola rotonda che ha portato nel 2017 all’istituzione di un Fondo per le vittime), Dario Mordasini, già responsabile del settore sicurezza sul lavoro di Unia e Christine Michel (subentratagli nel 2016). Per cercare in particolare di indagare sull’operato del movimento sindacale, sui suoi meriti e sui suoi errori, abbiamo posto alcune domande a Vasco Pedrina (nella foto).

 

Vasco Pedrina, nel documento si afferma che i sindacati hanno preso coscienza con ritardo delle dimensioni della tragedia. Quando e come è avvenuta questa presa di coscienza?
È successo solo agli inizi degli anni Ottanta su spinta di tre fattori: i segnali che giungevano dalla base, in particolare da alcuni operai dell’Eternit di Niederurnen che manifestavano preoccupazione; le pressioni della Federazione internazionale dei lavoratori dell’edilizia e del legno (all’epoca fortemente influenzata dai sindacati dei paesi nordici, pionieri della messa al bando dell’amianto) sulle Federazioni nazionali, in Svizzera sull’allora Sindacato edilizia e legno (Sel), per l’organizzazione di una campagna unitaria; infine, ma non da ultimo, le iniziative subito promosse nonché l’attivismo di alcuni nostri militanti.
Quali furono le prime mosse?
Come Sel, realizzammo innanzitutto un’inchiesta sui posti di lavoro, d’intesa con la Flmo e la Fctc, per comprendere i problemi esistenti. Sulla base dei risultati chiedemmo e ottenemmo dall’Uss il lancio di una campagna coordinata. Nacque così un gruppo di studio con sindacalisti e specialisti universitari, che elaborò un documento di analisi e rivendicazione che poi ci servì per lanciare alla fine del 1984 un’offensiva pluriennale per la messa al bando dell’amianto in Svizzera. Una campagna martellante fatta di presenza sui media, pressioni politiche a tutti i livelli, denunce pubbliche e iniziative puntuali. Come quella, che ebbe una grande eco, di pubblicare sui giornali del Sel la lista di oltre 4.000 edifici pubblici (scuole comprese) contenenti amianto spruzzato, allestita su richiesta dell’Uss dall’Ufficio federale dell’ambiente ma che questo si rifiutava di rendere pubblica. La forte pressione esercitata per anni sulle autorità e sull’industria del cemento amianto fu decisiva per la svolta del 1989.
Fu chiaro sin da subito che l’unica soluzione possibile era la messa al bando e che il concetto di una “lavorazione in sicurezza” sostenuto all’epoca dall’industria del cemento amianto fosse un’illusione?
Sì, lo stato delle conoscenze e il rapido aumento delle malattie negli anni 80 dimostravano chiaramente che il discorso della lavorazione in sicurezza non reggeva.
Prima di questa fase, negli anni Settanta, in che misura la questione amianto occupava i sindacati in Svizzera? C’era eco per esempio degli scioperi e delle mobilitazioni che in Italia, alla Eternit di Casale Monferrato, andavano in scena già nel 1974?
Su quegli anni posso dire poco, ma so che quando ho cominciato ad occuparmene nel 1981 come responsabile della Commissione dell’Uss per i problemi di salute sui posti di lavoro, i miei predecessori non mi parlarono di amianto e non c’era alcun dossier aperto. Si percepiva uno scarso interesse per la problematica. Indubbiamente oggi dobbiamo fare autocritica, perché negli anni Settanta il sindacato è stato latitante, tendeva ad operare ancora secondo la vecchia filosofia “prima di tutto il lavoro e se poi si rispetta anche la salute tanto meglio”. Non è un caso che la Commissione sulla salute Uss sia stata istituita solo nel corso degli anni 70 e che in Svizzera il dibattito sull’umanizzazione del lavoro sia iniziato solo negli anni 80 su ispirazione dei sindacati tedeschi.
I sindacati marciavano uniti in questa battaglia oppure si registravano sensibilità diverse (per esempio tra laici e cristiani)?
Al tempo i rapporti con i sindacati cristiani erano più difficili di oggi e loro erano poco presenti e non credo molto interessati, per cui di fatto è stata solo una campagna dell’Uss e del Sel, che però ha coinvolto movimenti ambientalisti e altre associazioni interessate.
Nel documento si muovono pesanti critiche alla Suva per il suo atteggiamento rigido e difensivo nei confronti della campagna sindacale nonostante lo stato delle conoscenze sulla pericolosità dell’amianto, che «fece dubitare sulla sua capacità di essere all’altezza dei suoi compiti». Cosa contestava la Suva esattamente?
C’era un certo nervosismo da parte della Suva, perché presagiva che le nostre critiche e le nostre rivendicazioni non si indirizzavano solo contro la Eternit ma mettevano in causa anche l’operato della Suva stessa, che fino negli anni Settanta, influenzata dall’industria, tendeva ad avallare l’idea che l’amianto potesse essere lavorato in sicurezza. La Suva ha tentato di condizionare il lavoro del nostro gruppo di studio, ma decidemmo lo stesso di confrontarci sul documento di analisi e rivendicazione che stavamo preparando. All fine ciò si rivelò un esercizio utile, perché ci permise di migliorarne la qualità dal punto di vista scientifico, senza dovere rinunciare alle nostre rivendicazioni.
Come si sono evoluti nel corso degli anni i rapporti tra i sindacati e la famiglia Schmidheiny che era alla testa della Eternit?
Con Max Schmidheiny [padre di Stephan che gli subentrò a metà degli anni Settanta e di Thomas, che nel 1989 comprò la Eternit da Stephan, ndr] non era possibile alcun dialogo: era un padre padrone di vecchia scuola, che odiava i sindacati. Quando il Sel nei primi anni Settanta riuscì ad organizzare un numero importante di lavoratori alla Eternit di Payerne (Vaud), appena venne a saperlo, egli convocò tutti i lavoratori e li mise di fronte ad un’alternativa chiara: o il sindacato o il posto di lavoro. La maggioranza diede la disdetta dal sindacato. Il sindacato infastidiva anche il figlio Stephan: quando, nel pieno della nostra campagna per la messa al bando dell’amianto, lo incontrammo (su suo invito) ci disse chiaramente di riconoscere il ruolo del sindacato in una democrazia (un progresso rispetto al padre) ma di non volerne la presenza nelle sue aziende. Anche lui non seppe distaccarsi dalla logica del “padre-padrone”, seppur corretto con i suoi dipendenti. Credo che anche a causa di questo atteggiamento lui abbia pagato, sul piano personale, un prezzo elevatissimo. Sono convinto che se si fosse confrontato su un piano di parità con i sindacati, ne sarebbe uscito meglio dalla tragedia dell’amianto, probabilmente anche in Italia.
Nell’ambito del processo in Italia contro Stephan Schmidheiny è emerso come lui monitorasse in prima persona le mosse dei sindacati e di taluni sindacalisti ai suoi occhi “pericolosi” e temesse che un’operazione concertata a livello internazionale accelerasse i tempi di uscita dall’amianto. Anche in Svizzera il sindacato è stato oggetto di particolari “attenzioni” da parte di Schmidheiny?
È chiaro che tutte le nostre iniziative e le campagne portate avanti anche dai giornali sindacali erano monitorate dal dipartimento della comunicazione dell’Eternit, ma non credo che ci abbia fatti spiare. Anche perché operavamo alla luce del sole. Penso che la politica di Schmidheiny consistesse da un lato nell’avere un minimo di dialogo con noi e dall’altro nel tentare con i mezzi a sua disposizione di ritardare l’entrata in vigore del divieto.
Nel documento gli si riconosce comunque di aver consentito alla Svizzera, dichiarando nel 1978 la volontà di uscire dall’amianto e iniziando il processo di riconversione industriale, di essere tra i primi paesi europei (dopo quelli nordici) a decidere la messa al bando. Come si svolse il confronto e come giudica, nel complesso, il comportamento di Schmidheiny?
Schmidheiny ci chiedeva tempo per sviluppare materiali alternativi e 5 anni dopo ci mostrò i primi risultati positivi. Ma noi spingevamo sull’acceleratore per un’uscita più rapida possibile dall’amianto. La riconversione l’avrebbe dovuta realizzare ancora più rapidamente, Nei confronti delle vittime si è invece comportato male, ma non me la sento di mettere in croce Stephan Schmidheiny, di attribuirgli tutte le colpe. Perché errori ne sono stati commessi da tutte le parti. Anche noi sindacati, in fondo, ci limitavamo a chiedere tempi rapidi per la messa al bando, ma non per esempio la chiusura immediata delle fabbriche. E anche questa può – con il senno di poi - essere una ragione di autocritica.
Nel documento si afferma infine che Schmidheiny non è stato di alcun aiuto nell’ambito dei lavori della tavola rotonda che ha portato nel 2017 all’istituzione del Fondo per le vittime dell’amianto. In che senso?
Sia Stephan sia Thomas Schmidheiny si sono rifiutati di mandare un loro rappresentante alla tavola rotonda. Se il Fondo è nato è grazie anche all’attuale proprietà della Eternit Schweiz AG (che non è più degli Schmidheiny), che essendo subentrata nel corso degli anni 2000, non ha nemmeno mai avuto a che fare con l’amianto. Ci si sarebbe potuti aspettare un altro atteggiamento da parte dei due fratelli. Naturalmente auspichiamo, visto che il Fondo necessita di ulteriori finanziamenti, che anche loro decidano di parteciparvi.
claudio.carrer@areaonline.ch

Pubblicato il 

27.04.20

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