Anziane ma non ancora sagge

È dalle ceneri della Seconda guerra mondiale che nascono le due istituzioni di Bretton Woods, Banca mondiale (Bm) e Fondo monetario internazionale (Fmi). Nel convegno che ebbe luogo fra il 1o e il 22 luglio del 1944 – i cronisti dell’epoca dissero che si trattò piuttosto di una zuffa –, il segretario aggiunto al tesoro americano, Harry Dexter White, contrapponeva il suo progetto per un nuovo ordine monetario del mondo a quello del suo omologo britannico John Maynard Keynes. White, nel suo “Programma per un’azione monetaria interalleata” proponeva di creare due istituzioni. Il Fmi era destinato a stabilizzare i tassi di cambio fra le monete di modo che le nazioni uscite dalla guerra potessero crescere in maniera stabile. Lo scopo della Bm era invece quello della ricostruzione post bellica e dello sviluppo del commercio internazionale. Oltre a ciò agli occhi degli americani era evidente che la moneta da utilizzare per i pagamenti internazionali dovesse essere il dollaro, l’unica moneta ritenuta sicura. I progetti di Keynes erano ben diversi, a suo parere sul lungo andare l’utilizzo del biglietto verde per la copertura mondiale del commercio avrebbe creato dei malfunzionamenti. Per questo motivo propose di istituire una moneta sovranazionale, il “bancor”, e una banca che fosse pertanto davvero “mondiale”. A nulla servì la disputa teorica di rango (Keynes è considerato uno dei più grandi economisti di tutti i tempi), i rapporti di forza erano chiari sin dall’inizio e a spuntarla fu la delegazione statunitense. Nacquero così le due istituzioni internazionali, contro le quali nel corso degli anni si sono alzate sempre più voci critiche. Pare che Bretton Woods all’epoca non fosse nemmeno sulla carta geografica degli Stati Uniti. Il luogo è un promontorio nel New Hampshire denominato Mount Deception. Un villaggio neppure segnato sulla carta quindi, un’illusione – traduzione letterale di Deception – fallimentare come quella del megalomane imprenditore turistico che vi aveva costruito un enorme albergo. Neppure quando erano in fasce Bm e Fmi godevano dei migliori auspici. Al recente Forum sociale mondiale di Mumbai, le t-shirt con la scritta «World Bank, Imf – doing the empire’s dirty business» (“Banca Mondiale e Fmi – esecutori degli affari sporchi dell’Impero) si vendevano come panini. Queste istituzioni, così come l’Omc (Organizzazione mondiale del commercio), sono state oggetto di attacchi di ogni tipo. Joseph Stiglitz, già economista della Banca mondiale, le accusava in particolare di volere raggiungere obiettivi al contempo ristretti ed erronei. Secondo il Premio Nobel, la libera circolazione dei capitali è un fattore di destabilizzazione dei paesi in via di sviluppo ed i suoi effetti sono catastrofici. La politica economica non dovrebbe essere lasciata in mano ai tecnocrati della finanza internazionale, ma essere collocata al centro del dibattito di ogni paese. Per alcuni, come il campione sudafricano della libertà Dennis Brutus, le due istituzioni hanno ormai fatto il loro tempo. George Monbiot, teorico britannico e oppositore della mondializzazione, vedrebbe positivamente il Fmi rimpiazzato da una nuova organizzazione. Egli propone che i paesi in via di sviluppo più indebitati utilizzino tutti insieme i loro debiti come armi, brandendo la minaccia della loro insolvibilità affinché le scelte economiche nocive alle loro popolazioni vengano soppresse. Il problema irrisolto del debito, così come il fardello degli interessi legati ai nuovi crediti, sono i punti più critici della politica macroeconomica delle due istituzioni. L’uruguaiano Roberto Bissio, capo della rete internazionale di Ong Social Watch, accusa il Fondo monetario internazionale di andare ben al di là delle regole dell’Omc, attuando rivendicazioni in materia di soppressione dei diritti di dogana e di liberalizzazione del commercio. Dal canto suo, l’economista inglese Robert Wade, attacca l’attribuzione selettiva dei prestiti. Ottengono infatti crediti unicamente i governi che hanno adottato una politica economica per così dire “ortodossa”. In questo modo, l’aiuto della Banca mondiale all’India si concentra sui tre stati dell’Unione – sull’insieme dei 24 – che seguono una linea radicale in materia di privatizzazione, di liberalizzazione, e di produzione improntata sulle esportazioni. Questo modello economico – il cosiddetto “Consenso di Washington” – blocca la crescita e provoca disuguaglianze sociali crescenti. In occasione della riunione di primavera del Fmi e della Banca mondiale, tenutasi a fine aprile a Washington, l’organizzazione non governativa americana 50 Years is Enough (50 anni bastano) ha invitato a manifestare nel mondo intero con questo slogan: «È il momento di andarsene». Il Fmi non è dunque la sola organizzazione che subisce rimproveri: anche la Banca mondiale subisce critiche, malgrado le sue arie progressiste. L’autunno scorso, la Banca mondiale ha dovuto affrontare le feroci accuse di tre grandi organizzazioni internazionali di protezione dell’ambiente per avere annunciato nuovi investimenti in grandi progetti ad alto rischio. Si tratta di progetti ai quali essa aveva rinunciato all’inizio degli anni novanta proprio a causa delle forti pressioni delle Organizzazioni non governative (Ong). Gli Amici della Terra, Environmental Defense Fund e International Rivers Network accusano oggi la Banca mondiale di tornare alle sue vecchie abitudini minacciando la sopravvivenza di decine di migliaia di persone. Secondo queste organizzazioni, la Banca mondiale non ha tratto alcuna lezione dagli errori del passato e continua a sottovalutare le conseguenze sociali dei suoi progetti giganteschi, rifiutando altresì di esaminare seriamente soluzioni alternative più modeste. Le popolazioni implicate nei progetti non hanno ancora – o non a sufficienza – potuto pronunciarsi. Numerose Ong del mondo intero – sostenute da una commissione di esperti indipendenti – chiedono che la Banca mondiale, così come le banche regionali di sviluppo, si ritirino dal finanziamento di progetti minerari e petroliferi. Molti progetti della Banca mondiale sono infatti considerati pregiudizievoli per le popolazioni e l’ambiente. Istituzioni controllateda pochi Stati potenti A tutto ciò si aggiunge il funzionamento anti-democratico della Banca mondiale e del Fmi. Su 148 Stati membri, 23 paesi industrializzati detengono più del 60 per cento dei voti. I cinque più grandi ne controllano circa il 40 cento; gli Stati Uniti possiedono una minoranza di blocco del 16 cento, che permette loro di fare cadere le decisioni più importanti. Una cinquantina di Stati africani detengono tutti insieme solo due seggi al Consiglio esecutivo. I Paesi Bassi, il Belgio, e la Svizzera hanno un peso elettorale più grande di Brasile e Messico, che sono economicamente più importanti. I paesi ricchi sono coscienti di queste condizioni. Sanno che si dovrebbero correggere, ma – con la loro abitudine a voler fare le frittate senza rompere le uova – hanno portato sinora solo qualche miglioria cosmetica. Da un lato cercano di minimizzare l’importanza dei voti, dall’altro fanno valere i loro diritti come enti finanziatori. Per essere del tutto onesti, bisogna ammettere tuttavia che sia Fmi che Banca mondiale hanno introdotto in questi ultimi anni anche qualche cambiamento positivo, dovuto in particolare alle pressioni delle Ong. Le due istituzioni hanno posto, almeno a parole, la lotta contro la povertà al centro della loro politica, dichiarando di volere aiutare i paesi in via di sviluppo a realizzare gli obiettivi della Dichiarazione del Millennio dell’Onu (ridurre la povertà da qui al 2015). Il presidente della Banca mondiale, James Wolfensohn,(1) non esita inoltre ad adottare accenti radicali: combattere la poliomielite, frenare la progressione dell’Aids e mandare tutti i bambini a scuola… Le due istituzioni sono anche diventate più aperte. Pubblicano oggi dei documenti, a volte anche in lingue indigene, che avrebbero in passato mantenuto segreti. Recentemente hanno anche pubblicato sui loro siti internet l’ordine del giorno dei loro consigli esecutivi. Il dialogo si è intensificato con chiese, sindacati, Ong, ma anche con i parlamenti nazionali. Chiunque – sentendosi urtato perché ritiene che la Banca viola i suoi principi e le sue disposizioni politiche – può depositare una lamentela ufficiale presso l’Inspection panel della Banca. Dal canto suo anche il Fmi fa valutare la sua politica da un ufficio indipendente. Le istituzioni di Bretton Woods si sforzano inoltre di lottare contro la corruzione, il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo. Tuttavia, sino a quando non saranno pronte a rimettere fondamentalmente in causa la loro politica e le loro direttive macroeconomiche, tutto ciò costituirà solo un ritocco di superficie. (1) James Wolfensohn, attuale presidente della Banca mondiale, non si ripresenterà probabilmente più per un terzo mandato (di cinque anni). Tradizionalmente, è sempre stato un cittadino americano ad occupare il trono della Banca mondiale, quello del Fmi essendo detenuto dagli Europei. La procedura elettorale è poco trasparente e solo un piccolo gruppo di grandi paesi ricchi ha una reale influenza. Se il nuovo presidente sarà designato secondo gli usi e i costumi in uso sinora, il successore di Wolfensohn dovrebbe essere un uomo vicino ai repubblicani americani. Tuttavia, diverse Ong hanno lanciato una campagna per una candidatura alternativa. Desidererebbero proporre una donna originaria dei paesi del Sud, che verrebbe eletta sulla base di una procedura trasparente e democratica, e con criteri ben definiti. Per saperne di più: www.brettonwoodsproject.org www.50years.org

Pubblicato il

25.06.2004 01:00
Bruno Gurtner
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