Arabi infelici? Macchè

Samir Kassir è stato assassinato il 2 giugno del 2005 all'età di 45 anni. Era un esponente di spicco di quella che viene chiamata la "rivoluzione dei cedri" libanese: la rivolta che il popolo democratico del paese – in particolare la gioventù, che appunto Samir Kassir aveva interpretato e guidato – ha condotto contro la presenza dell'esercito siriano in casa propria. Il suo contributo di giustizia – di giornalista, di attivista, di combattente nelle fila della Sinistra Democratica – è però meno fondamentale di quello offerto dalle sue idee. Samir Kassir ha rotto un mito e forse ne ha creato un altro: ma in questo senso ha riaperto la breccia della speranza araba.

L'infelicità araba, uscito nel 2006 per Einaudi, mette infatti prima di tutto in discussione che la storia araba sia stata quella che più o meno ovunque – e non solo in Oriente, ma anche in Occidente – viene presentata: vale a dire un lungo periodo di tenebre in cui ancora sarebbe sommersa e il cui inizio corrisponderebbe alla fine del periodo aureo islamico. In altre parole Samir Kassir mette in dubbio che la storia araba si sia "interrotta" con il 1500 con la contemporanea uscita dell'Europa dai secoli bui. E propone invece una lettura positiva, illuminista e ottimista di quanto avvenuto fino agli anni più recenti.
Ho letto il libro di Samir Kassir con un tuffo al cuore, poiché la realtà a cui assisto quotidianamente in Egitto è una realtà in cui trovano conferma tutti gli incubi lì evocati: passatismo, recrudescenza del salafismo, corruzione sistematica, infelicità e impotenza vissuti al massimo grado, disperazione giovanile e sentimento di una impasse così generalizzata da non trovare sbocchi nemmeno nella fantasia. Insomma, ho letto il libro L'infelicità araba dalla prospettiva di chi tale infelicità vive, in parte anche su di sé, tutti i giorni da nove anni e sa che è qualcosa di mostruosamente reale e profondo, al punto da soffocare anche le speranze, e le voci, dei più coraggiosi e progressisti fra gli intellettuali locali.
Trovo che la voce di Samir Kassir sia però una voce davvero potente e limpida, in questo marasma di retroguardie intellettuali – lucide solo nel ricordarci il mito delle origini, e potenti soltanto come fuochi fatui – e sia perciò in grado di imporci, quasi di costringerci con la forza del pensiero (direi con la "forza della ragione", se tale espressione non fosse stata usurpata dalla Fallaci), una visione edificante del futuro e del presente. Se non altro perché recupera un orgoglio, una dignità della storia e del pensiero "arabo",  che i fatti recenti e le vicende della cronaca attuale sembra congiurino a mettere in ombra.
Confesso, nello stesso tempo e con la stessa onestà, che la sua posizione e forza non sono però del tutto le mie. Che la sua capacità di credere nelle risorse della "rinascita" (Nahda) si scontra in me con un realismo cupo di matrice nichilista. Di fronte ai suoi appelli rimango affascinato e sedotto. Ma anche perplesso come di fronte al buon senso, all'intelligenza e alla lungimiranza espressi in un contesto, come quello arabo, nel quale la legge della dialettica e del confronto con la pluralità del pensiero sono da tempo soffocati da montagne di fumosa retorica della tradizione, dell'assoluto religioso e della morale d'accatto dei neo-fondamentalisti del proselitismo islamico (che non sono certo l'anticamera del terrorismo ma ne sostengono implicitamente gli assunti teorici).
Temo dunque che il linguaggio illuminista e moderno di un Samir Kassir attecchisca certamente, anche se in parte e non in assoluto, fra i giovani "laici" di Beirut. Ma sia profondamente sopraffatto altrove – in Medioriente, nel Maghreb, nel Mashreq – dal linguaggio della violenza, fisica e culturale, di cui sono padroni a tutti gli effetti i governanti e i media, quelli egiziani in testa che segnano il passo con il loro martellante ribollire di retorica nazionalista e di islamismo di massa. E Al Jezeera fa anch'essa la sua brava parte.
Temo che aprire una breccia in queste tenebre di barbarismo e corruzione, malafede e salafismo costi perciò o la vita o la morte. Lui ha pagato con la vita, molti pagano con la morte: la sua parola è stata vita e pertanto è stata stroncata. Quella di molti altri è e rimarrà morte poiché non ha nemmeno cittadinanza o diritto di esistere.
Ma è questa la strada, non c'è dubbio. Quel libro, L'infelicità araba, è un invito al recupero di una storia e al rigetto di un mito.
È un invito a recuperare la storia reale e migliore degli arabi e dell'islam che si è affacciata fino a vent'anni fa sull'Europa con altrettanta curiosità e volontà di dialogo, e un rigetto del mito assurdo della differenza assoluta e della purezza delle origini. E con questo è un invito fondamentale, che tutti noi in Occidente dovremmo aiutare a fortificare: l'assunzione dell'idea di storia come di un fatto perennemente sottoposto al meraviglioso gioco dell'invenzione, del cambiamento, dell'innovazione e dello scambio.
Finché la storiografia araba sarà vittima di se stessa, la storia araba sarà vittima della propria auto-mortificazione. La cultura serve anche a mettere un altro ordine nella memoria e nel passato. E il libro di Samir Kassir – una delle poche persone che meritino l'appellattivo di "martire" – è in questo senso davvero esemplare e fondamentale.

Pubblicato il

16.06.2006 03:30
Marco Alloni
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