Aumenti salariali nell’interesse di tutti

Lo si racconta persino in alcuni manuali di economia, quasi a rilevare una legge economica. Verso la fine degli anni Cinquanta lo storico sindacalista americano, Walter Reuther, visita le fabbriche Ford. Henry Ford II gli mostra le auto ultimo grido e gli chiede beffardamente: «E ora, come potrai convincerli ad aderire al tuo sindacato?». Il sindacalista non si scompone e ribatte: «E tu come potrai convincerli ad acquistare una tua auto?». Siamo sempre lì, a quell’interrogativo: offerta o domanda? Puoi produrre (offerta) ma se poi non c’è  o è in dubbio il potere d’acquisto (domanda), a cosa serve?


Una sorta di contraddizione del genere si sta vivendo in questi giorni. Con alcuni fatti di attualità. La crescita, in Svizzera, sta stagnando, come nei vicini paesi europei. Crescita zero del prodotto interno lordo (pil)  tra aprile e giugno (o della ricchezza aggiunta nel paese durante questo periodo). Sull’arco di  un anno si dimezzerà  quella prevista. E questo capita nella nazione che, nello stesso tempo, è dichiarata la più competitiva del pianeta (v. World Economic Forum). Due osservazioni: la stretta interdipendenza con l’Unione europea è innegabile, nonostante i tentativi di sgancio o i proclami di sovranità (vale anche per la politica monetaria, condizionata dalla Banca centrale  europea); se la domanda si indebolisce o crolla, la recessione è alle porte.


Vestendoci di cinismo imprenditoriale (sarà un’illazione, ma non dev’essere molto lontana dalla verità), il calo del pil può diventare un paradossale toccasana per annullare di botto la rivendicazione sindacale di un aumento generalizzato del 2.5 per cento dei salari. Non si può pretendere una cosa del genere di fronte ad una crescita stagnante e ad una necessaria maggiore competitività (compressione dei costi, soprattutto salariali), senza mandare in malora tutta l’economia. Ottimismo sindacale, orami fuori posto, contro pessimismo imprenditoriale,  legittimato dalla stagnazione e dalla certezza che i prezzi  caleranno.


Diciamo subito  che per gli imprenditori i tempi per gli aumenti salariali non sono mai opportuni: se l’economia gira, grazie all’alta competitività,  si dirà che si  ingrippa il motore con il maggior costo del lavoro, rischiando licenziamenti; se l’economia frena è un suicidio per tutti. Chi esamina la causa principale dell’opposizione agli aumenti salariali generalizzati, e cioè la stagnazione, si accorge però ch’essa è dovuta pressoché esclusivamente alle restrizioni di spesa degli enti pubblici (che è poi parte essenziale della domanda). Non è imputabile al dinamismo delle esportazioni, che ha tenuto, e neppure al consumo  delle economie domestiche (divenuto domanda salvatrice).


Uno studio  del Consiglio federale apparso in questi giorni sulla ripartizione della ricchezza in Svizzera  non indaga su molti interrogativi utili per una politica fiscalmente o socialmente giusta (dove nasce la ricchezza, come si concentra, com’è investita, quanta ne fugge altrove ecc.) ma dice alcune verità. L’una, che i redditi da lavoro bassi e medi sono dal 1998 perdenti, mentre aumentano sempre e solamente quelli alti: quindi diseguaglianze forti  e perdita graduale di potere d’acquisto di gran parte delle economie domestiche, quelle che sostengono maggiormente la domanda. L’altra, che le disparità sono anche regionali e il Ticino è perdente rispetto a tutte le altre regioni per tutte le tipologie di reddito salariale.
Ci sono dunque  infinite ragioni, per la stessa economia, per pensare alla domanda facendo crescere i salari.

Pubblicato il

10.09.2014 21:46
Silvano Toppi
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