Autunno bollente in Germania

Prima le proteste contro i tagli allo stato sociale varati dal governo Schröder che hanno portato in piazza centinaia di migliaia di persone per più settimane di seguito, poi la crisi del gruppo commerciale Karstadt Quelle e lo spettro della disoccupazione per quasi 20.000 dipendenti ed infine la rivolta di Bochum contro il piano di ristrutturazione ed i relativi licenziamenti annunciati dalla Opel/General Motors. I segnali erano visibili da tempo, ma in pochi, solo qualche mese fa, si sarebbero immaginati di vivere l’autunno più caldo della recente storia tedesca. Le crisi di Karstadt Quelle e Opel sono due storie tedesche dai risvolti globali, comprenderne le cause e gli sviluppi significa, infatti, appropriarsi della chiave di lettura del capitalismo contemporaneo. In entrambe le vicende risulta lampante l’impreparazione e l’arroganza dei vertici aziendali, incapaci di riconoscere le proprie, gravissime, colpe nella gestione delle imprese fino a quando i passivi divengono talmente elevati da non poter più essere mascherati. I problemi di Karstadt Quelle e della Opel sono dovuti, infatti, in primo luogo all’incapacità dei manager alternatisi ai vertici dei rispettivi consigli d’amministrazione: sbagliate le campagne di marketing, completamente assente la pianificazione di lunga durata, insignificanti, nel caso della Opel, gli investimenti nella ricerca. Quando poi le crisi diventano ingestibili, i supermanager, profumatamente pagati per individuare nuove strategie, non sanno far altro che ricorrere all’accetta, tagliando alla cieca posti di lavoro, senza preoccuparsi di distinguere tra reparti produttivi e rami secchi. Quello che conta è che le azioni tornino a salire in borsa. A rendere il tutto ancora più drammatico, c’è il fatto che oggi, in Germania, come in gran parte degli altri Paesi industrializzati, la politica è completamente assente o prende atto del taglio di migliaia di posti di lavoro con la stessa impotenza con cui si assiste ad un cataclisma. Sia nel caso Karstadt Quelle che per la Opel il cancelliere Schröder e il suo ministro per l’economia ed il lavoro, Clement, sono rimasti alla finestra, rilasciando dichiarazioni di circostanza, appellandosi alla legislazione europea che impedisce sovvenzioni statali alle imprese ed in pratica lasciando che la legge di mercato – o meglio della giungla – facesse il suo corso. Triste fine per un governo nato per difendere stato sociale e posti di lavoro e che invece si trasforma, ogni giorno di più, in complice del neoliberismo più radicale. L’unico segnale positivo che emerge da queste due storie tedesche è la conflittualità – vedi Bochum – che i lavoratori, nonostante tutto, riescono ancora ad esprimere. Chi li voleva rassegnati e proni ha dovuto ricredersi. E il prossimo conflitto è già nell’aria e riguarda un altro grande marchio automobilistico: la Volkswagen. A Wolfsburg le trattative tra azienda e rappresentanti dei lavoratori sono avviate ad un rapido fallimento. Troppo distanti le reciproche posizioni: mentre l’Ig Metall spinge per un aumento salariale di almeno il 2 per cento, la Volkswagen risponde offrendo la garanzia dei posti di lavoro in cambio di due anni a salario bloccato e il contemporaneo aumento delle ore lavorative. A questo punto anche in Bassa Sassonia il ricorso allo sciopero appare inevitabile. L’autunno caldo è appena cominciato. Uno sciopero così nella Repubblica federale non si era mai visto e per cercare un parallelo con la protesta dei lavoratori della Opel e dell’intera cittadinanza di Bochum nella recente storia europea bisogna risalire alle lotte dei minatori inglesi contro il governo di Margaret Thatcher nell’Inghilterra degli anni ’80. La risposta di Bochum – città ex mineraria e presto anche ex automobilistica del Bacino della Ruhr – all’annuncio della General Motors di voler tagliare, entro il 2005, oltre 12.000 posti di lavoro nel vecchio continente, di cui almeno 10.000 in Germania, ha, infatti, sorpreso tutti, sindacato compreso. A gridare il proprio no al piano di “risanamento” del colosso statunitense, cui appartengono le quote di maggioranza della Opel, della Saab e di una serie di altri marchi automobilistici europei, sono stati, oltre ai diretti interessati, le loro famiglie, scolari e studenti universitari, pensionati e casalinghe, sacerdoti di confessioni diverse e politici di, quasi, ogni colore. Un popolo variopinto ed arrabbiato, come in una versione postmoderna del Quarto stato di Pellizza da Volpedo, una comunità consapevole che, se la fabbrica chiude, ad andare in malora, oltre al futuro di migliaia di famiglie, è l’economia di un’intera regione. L’Opel ha stabilimenti, oltre che a Bochum, anche a Rüsselsheim in Assia, a Kaiserslautern in Renania-Palatinato e ad Eisenach in Turingia, ma solo il megastabilimento in riva alla Ruhr è a rischio chiusura. Lì è concentrato, infatti il grosso della manodopera, lì il costo del lavoro – a detta dei tagliatori di teste di Detroit – è troppo alto e lì, infine, non si è investito da decenni negli impianti e in nuove tecnologie. E pensare che negli anni ’60, vale a dire in tempi in cui la pianificazione industriale era ancora una competenza della politica, la Opel era stata chiamata dal governo regionale ad investire nel Bacino della Ruhr per offrire un’alternativa ai lavoratori che con la progressiva chiusura delle miniere rischiavano di rimanere a spasso. Oggi, invece, a Bochum non vi è traccia di alternative alla Opel. E nemmeno di politici capaci di risolvere questa crisi. Basti pensare che il cancelliere Gerhard Schröder ed il superministro dell’economia e del lavoro, Wolfgang Clement – che oltretutto è originario di Bochum – non sono andati oltre l’auspicare «una rapida conclusione delle agitazioni». Consapevoli di ciò gli operai di Bochum, spalleggiati dai loro concittadini, hanno dato vita ad uno sciopero che, più che un’astensione dal lavoro in senso tradizionale, ha assunto le caratteristiche di una rivolta popolare. La legge tedesca, infatti, concede ai lavoratori di esercitare il diritto allo sciopero unicamente in materia salariale e solo dopo il fallimento delle contrattazioni. Prima dello sciopero vero e proprio, che deve essere preceduto da un referendum tra i lavoratori, sono previste, inoltre, brevissime astensioni dal lavoro a scopo dimostrativo. Nella vicenda Opel, in teoria quindi, non si sarebbe mai potuti giungere al blocco della produzione, visto che il problema non è di natura contrattuale. Lo “sciopero selvaggio di Bochum”, come lo hanno subito definito i mass media, è stato fatto passare ufficialmente come una serie di «riunioni informative promosse dalle commissioni interne per informare le maestranze sui progetti di risanamento promossi dall’azienda». Un trucco che ha salvato le apparenze di fronte alla legge e che è riuscito nell’intento di fermare il ciclo produttivo non solo in Germania, ma anche negli stabilimenti Gm di Belgio ed Inghilterra che da Bochum ricevono parte dei componenti. Dopo cinque giorni di sciopero selvaggio o riunioni informative che dir si voglia, accompagnati dalle manifestazioni di solidarietà di decine di migliaia di operai del gruppo Gm in tutta Europa, la produzione a Bochum è ripresa. La maggioranza dei lavoratori ha deciso che come primo segnale a Detroit poteva bastare. A convincerli sono stati i rappresentanti del sindacato di settore, la Ig Metall, scavalcati per tutta la durata della protesta dall’intraprendenza delle commissioni interne e dalla rabbia degli operai. A loro spetta ora il difficile compito di far fruttare il potenziale di conflittualità nelle trattative che i vertici aziendali si sono visti obbligati ad avviare. Per gli operai, però, lo sciopero non è finito, è solo temporaneamente sospeso in attesa delle contromosse dei manager d’Oltreoceano. Per concludere un paio di riflessioni. La crisi della Opel nasce da lontano e non è dovuta certo alle retribuzioni sopra la media europea degli operai di Bochum e nemmeno si può attribuire unicamente al calo delle vendite di automobili derivante dalla recessione economica in atto. Per capire il caso Opel bisogna sapere, ad esempio, che la proprietà statunitense ha gestito malissimo le sue aziende nel vecchio continente. Detroit, solo per fare un esempio, ha alternato gli amministratori delegati alla guida della Opel al ritmo forsennato di uno ogni dieci mesi. Individuare strategie vincenti in periodi così brevi è chiaramente impossibile ed infatti da anni la Opel, che per decenni era stata il punto di riferimento automobilistico di tanti tedeschi, sconta un’immagine negativa. Troppi modelli difettosi ritirati dal commercio, mancanza assoluta di un progetto globale che si rispecchia nella produzione di auto al tempo stesso troppo costose per i meno abbienti e poco attraenti per i più ricchi, ma, soprattutto, totale assenza di ricerca tecnologica in settori vitali come il diesel. Alle colpe dell’azienda, poi, va aggiunta l’indifferenza della classe dirigente tedesca. Se, infatti, si paragona il caso Bochum con quanto sta accadendo allo stabilimento Saab di Trollhättan, in Svezia, le differenze appaiono lampanti. Stessa la proprietà (General Motors), stessa l’arretratezza degli impianti, stesso l’esubero di manodopera (oltretutto in Svezia il costo del lavoro è ancora più alto che in Germania), eppure da quando il premier svedese Göran Persson ha assicurato che il suo governo investirà in ricerca ed infrastrutture a Trollhättan, la Gm ha cancellato quello stabilimento dalla sua lista nera. Di questi tempi in Germania niente sembra essere risparmiato dagli spettri della crisi, della chiusura e della ristrutturazione. Così, oltre al caso Opel, al centro delle cronache tedesche degli ultimi giorni campeggia l’incerto destino della catena di grandi magazzini Karstadt Quelle, la prima in Europa. Il colosso commerciale che vanta una diffusione capillare sul territorio tedesco, oltre ad un’imponente settore vendite per corrispondenza, ha mostrato all’improvviso i suoi piedi d’argilla. L’annuncio di Helmut Merkel, amministratore delegato di Karstadt Quelle, di voler chiudere o vendere poco meno della metà delle 166 filiali del gruppo entro i prossimi tre anni è giunto del tutto inaspettato per i lavoratori dell’azienda. Dietro la colossale operazione di smantellamento e svendita si cela, in realtà, il risultato di anni di strategie manageriali fallimentari, a cominciare dalla totale incapacità di rinnovare la propria immagine, sicuri che nome e tradizione bastassero a mantenere i vecchi clienti e a conquistarne di nuovi. Nel caso Karstadt Quelle, poi, a non convincere affatto è la strategia di risanamento aziendale – si fa per dire – individuata dalla proprietà. Andando, infatti, a leggere nello specifico quali sono le 77 filiali destinate alla chiusura o alla vendita, ci si rende conto che si tratta, esclusivamente, di quelle più piccole, quelle, cioè, con una superficie inferiore agli 8’000 metri quadrati. Non le filiali con i passivi più preoccupanti, quindi, oppure quelle dislocate in zone svantaggiate. No, ai supermanager di Karstadt Quelle, in realtà, non importa affatto che, tra i 77 centri commerciali individuati, molti possono vantare bilanci positivi e buone prospettive di sviluppo. Gli auspici del dio mercato hanno individuato la loro formula divinatoria e questa dice di liberarsi delle filiali più piccole. Amen. Cosa sarà dei quasi 20.000 lavoratori coinvolti nel gigantesco piano di ristrutturazione non è dato sapere. I vertici di Karstadt Quelle, al fine di evitare agitazioni, si sono affrettati ad assicurare che «verrà intrapreso ogni sforzo per assicurare il passaggio ad altra gestione» delle 77 filiali e che, se si dovrà giungere ad una riduzione del personale, «ciò avverrà ricorrendo ai prepensionamenti». Da parte loro le commissioni interne ed il sindacato di settore, Ver.di, hanno annunciato la disponibilità dei dipendenti ad aumentare le ore lavorative settimanali a parità di salario in cambio dell’assicurazione sul mantenimento dei posti di lavoro da parte dell’azienda. Più che di un accordo si tratta, in realtà, di una tregua armata in vista della ricapitalizzazione prevista per fine novembre. Le banche creditrici pretendono, infatti, almeno una parvenza di pace sociale per impegnarsi in un’operazione di finanziamento che dovrebbe superare complessivamente i 500 milioni di euro. A ricapitalizzazione avvenuta è altamente probabile che si arriverà alla resa dei conti tra azienda e lavoratori, visto che, se si giungerà alla cessione dei centri commerciali, si tratterà comunque di una vendita al ribasso, garanzie e posti di lavoro inclusi. Tra i potenziali compratori a cui al momento il crollo delle azioni di Karstadt Quelle sembra fare particolarmente gola ci sono il gruppo di spedizioni tedesco Dhl e la svizzera Kühne & Nagel. Nel caso più probabile, invece, di una chiusura delle filiali, il ricorso agli ammortizzatori sociali per tante migliaia di lavoratori si rivelerà per quello che è: una promessa priva di fondamento.

Pubblicato il

29.10.2004 01:00
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