Che fine ha fatto la bellezza in città

Rubo in parte il titolo ad un articolo di Mario Perniola*, apparso su La Repubblica del 12 giugno. Perniola scriveva dell'arte in generale mentre io parlerò delle città, in seguito anche al recente dibattito, in verità piuttosto prolisso, svoltosi sul Corriere del Ticino sull'imbruttimento della città di Locarno. Comincio con una banalità: quando visitiamo le città andiamo tutti, senza eccezione, a cercare il centro storico. Avete mai visto qualcuno che passi le giornate ad ammirare i quartieri sorti dopo il 1950, magari il Gallaratese, il Lochergut di Zurigo o Bagnols sur Cèze? Capita, certo, di vedervi qualche studente sperduto o qualche comitiva del genere mordi e fuggi in cerca di un edificio contemporaneo spettacolare, ma in generale la bellezza la si cerca nella città antica e di solito ci sentiamo frustrati per la bruttezza del presente costruito. Il Perniola scrive: «L'estetica si presenta oggi come un pot-pourri»… prodotto da una società «la cui caratteristica fondamentale dovrebbe essere individuata nella complessità, intesa come tessuto di avvenimenti, azioni, reazioni, determinazioni ed eventi casuali».
«Il pot-pourri di oggi ha carattere ordinario e tende a confondere tutto con tutto: anythinggoes, una cosa vale l'altra, purché sia attuale o spacciata come tale».
Applicando simili concetti all'architettura si vede perché la bellezza abbia lasciato le città, le muse siano scappate e la prospettiva non sia delle più brillanti. Si tende a dare la colpa di tutto ciò ai politici, ai pianificatori, agli architetti, ai committenti. E v'è qualche ragione. Ma bisognerebbe tentare di andare più a fondo nell'analisi. Prima dell'avvento del capitalismo i potenti che incassavano largamente i benefici del plus-lavoro (lacrime e sangue dei poveri) non avevano l'idea dell'investimento redditizio. Essi spendevano le loro sempre rinnovate ricchezze in palazzi, affreschi, piazze, feste, musica, teatro, cioè, secondo i concetti moderni, scialacquavano. E ogni tanto, per difendere od estendere il loro potere, facevano una guerra.
Il moderno sistema capitalistico è diverso. Il profitto dev'essere sempre investito per ottenere nuovo profitto, in una specie di crescita infinita, insensata, indifferente: l'etica sta soprattutto nella crescita perenne e nelle indispensabili misure accompagnatorie chiamate ammortizzatori sociali. Pianificatori, architetti e costruttori lavorano lì dentro e in genere, anche volendolo, non si possono discostare molto dai principi fondanti del sistema. Prendiamo per esempio i regolamenti urbanistici ed edilizi. Essi, in generale, tentano di ordinare sul territorio dei dati economici e produttivi che i pianificatori non hanno la possibilità di determinare. È già bello se riescono almeno a fissare qualche ragionevole limite quantitativo. Ma nessun regolamento ha mai prodotto la bellezza; in rari casi ha impedito la bruttezza. E i costruttori? I costruttori costruiscono e amen. E gli architetti ? Quando va bene progettano. Alcuni sono anche bravi, addirittura molto bravi. Ma c'è qualche problema che andrebbe affrontato. Molti architetti la pensano come Benedetto Croce, pur non conoscendolo, il quale «escludeva la natura dall'orizzonte della bellezza, sostenendo che il bello non appartiene alle cose, ma all'attività spirituale dell'essere umano». Forse sarebbe ora di rivedere un simile concetto un po' antiquato e di ridare sostanziale valore estetico alla natura. E poi c'è la questione del mito dell'unicità dell'opera, della cosiddetta creatività.
Un tempo, prima nelle botteghe, poi nelle scuole (anche quelle moderne ed eccellenti), uno dei metodi didattici principali consisteva nel copiare. Bisognava copiare fino alla noia opere esemplari. Il creare sarebbe semmai venuto dopo o non sarebbe venuto mai, lasciando un apprezzabile spazio all'imitazione. Il metodo del copiare, tra altri vantaggi pratici, aveva il pregio di instillare una certa umiltà, virtù divenuta oggi piuttosto rara nell'animo dei progettisti. L'umiltà generava rispetto per la ripetizione, per i cambiamenti lenti e limitati, tutte cose che contribuivano sicuramente alla bellezza delle città. E i politici? Penso che molti siano in balia delle onde, spesso insicuri, preoccupati dal pericolo dell'impopolarità, ossessionati, sia a destra che a sinistra, da un'idea positiva della crescita ad ogni costo. Ma vi sono rimedi? È molto, molto difficile e mi limito, per oggi, al generale. Sempre secondo il Perniola sarebbero «venute meno le due emozioni che hanno fortemente permeato la modernità, la nostalgia e l'utopia». Condivido. La modernità architettonica sentiva una forte nostalgia per le qualità estetiche del passato e lottava in tutti i modi, anche con le utopie, per conquistare una nuova estetica per il futuro. Ma quella modernità è finita. La città che oggi non ci piace è soprattutto la città post-moderna, quella dell'ultimo quarto del secolo scorso, sparpagliata su territori quasi interamente costruiti. Forse per ritrovare un po' di bellezza bisognerebbe cominciare a calmarsi, cercando con ogni mezzo di impedire, per esempio (e scusate il dettaglio) schifezze come l'Uovo di Chiasso.

Pubblicato il

06.07.2007 13:00
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