Christian Marazzi e salario minimo: liberare l’economia dal rimorchio

«Perché ci ostiniamo a far crescere un’economia stracciona dove si arricchiscono due o tre persone per impoverirne cento?»

Combattere la povertà. È la motivazione ufficiale per cui il Canton Neuchâtel ha giusticato la necessità d’introdurre un salario minimo, quale misura di politica sociale per contrastare la povertà dei propri cittadini. Una pratica avallata dal Tribunale federale lo scorso agosto quando ha bocciato il ricorso delle associazioni padronali contrarie al salario minimo di 20 franchi l’ora, circa 3.500 mensili. In Ticino, definito da tutti gli indici nazionali il cantone con il più alto tasso di povertà (e in forte crescita), il governo proporrà a breve l’importo di salario minimo. Come riportato da area lo scorso numero, tra le 16.000 e le 20.000 persone (di cui 5.000-8.000 residenti) si vedrebbero aumentare la paga, se ciò dovesse avvenire (http://tiny.cc/n27ony). Con l’autore della prima analisi cantonale “La povertà in Ticino“ pubblicata nel 1987, l’economista e ricercatore Christian Marazzi, area s’interroga sull’impatto dell’arrivo di un salario minimo nella realtà cantonale.


Professor Marazzi, c’è chi paventa che l’introduzione di un salario minimo nel cantone sarebbe estremamente dannosa per l’economia cantonale
È inevitabile che si faccia del terrorismo. L’introduzione del salario minimo in Ticino sarà il risultato di una lotta, non solo fra punti di vista, ma anche per l’affermazione di principi fondamentali quali la giustizia. La sentenza del Tribunale federale fa riferimento al salario minimo quale fabbisogno vitale di una persona. Stabilita questa soglia, l’obbligo di un salario minimo non compromette la libertà economica, perché non interferisce nelle leggi di mercato. Questo dice la sentenza.


Eppure il padronato e i suoi rappresentanti di Aiti dicono che l’economia cantonale non potrebbe sopravvivere all’introduzione di un salario minimo di 20 o 21 franchi orari.
È comprensibile che lo dicano, anche se il loro discorso appare contraddittorio. Sembrano sostenere che l’economia ticinese funziona solo se i bassi salari sono compensati dall’assistenza pubblica. Perorano dunque la causa di un’economia assistita. Non è molto onorevole, detto dai rappresentanti dell’economia. Equivale a ritenere giusto il principio secondo cui i benefici vanno privatizzati mentre i costi devono essere scaricati sulla collettività. Non si può certamente definirla una visione di spirito imprenditoriale.


Il salario minimo va dunque visto come un’opportunità?
Certo. L’arrivo di un salario minimo consentirebbe di fare un passo avanti all’economia ticinese sui sentieri dell’innovazione. Fino a quando le aziende potranno far leva sui bassi salari, si sarà sempre a rimorchio e in ritardo, perché il lavoro vivo costa meno delle nuove tecnologie. Finché ci sarà il vantaggio competitivo di accedere a un bacino di forza lavoro per dei salari miserevoli, non si creeranno mai le condizioni quadro affinché l’insieme dell’economia ticinese possa fare un balzo avanti all’altezza delle tendenze dell’economia globale.


Sarebbe dunque l’occasione di ripensare la politica economica regionale.
È l’occasione per domandarci qual è l’economia che vogliamo, su quali settori vogliamo concentrare le nostre forze, la nostra progettualità. Il futuro delle economie occidentali sono nelle attività incentrate sulle relazioni uomo-uomo. Lo sono per diverse ragioni, demografiche e tecnologiche essenzialmente ma non solo. La sanità, la ricerca sono settori dove già oggi il Ticino può vantare delle eccellenze. Penso allo Iosi, alla Supsi nei campi della ricerca, delle tecnologie avanzate, nelle intelligenze artificiali, dove siamo tra i migliori al mondo. Perché ci ostiniamo a far crescere un’economia stracciona dove si arricchiscono due o tre persone per impoverirne cento?


Alcuni rappresentanti di partiti come l’Udc sostengono che l’introduzione di un salario minimo di 20 o 21 franchi, attirerebbe ancor più frontalieri a lavorare in Ticino.
In un’economia dove vige la libera circolazione della forza lavoro, il problema ci sarà sempre. L’introduzione di un salario minimo costringerebbe il datore di lavoro a fare la scelta tra un residente o un frontaliere in base alle competenze e non sul costo del salario. Altrimenti quelle competenze le sacrifichi sull’altare del minor costo del lavoro, e dell’innovazione ecc. E alla lunga, sarai un imprenditore perdente.


L’Udc afferma che abolendo la libera circolazione delle persone cresceranno i salari dei residenti.
È una bufala. È vero il contrario. Ammettendo di costruire un muro alto anche 150 metri, si crede davvero che la dinamica della flessibilità e della precarietà del mondo del lavoro andrebbe a scomparire? La dinamica sarebbe esattamente la stessa, con una sola differenza: non esisterebbe più la scusa, o meglio, il capro espiatorio del frontaliere a cui dare la colpa.


Il salario minimo resta dunque la soluzione ottimale per combattere la povertà.
Non c’è dubbio che bisogna agire sugli stipendi, ma non dobbiamo unicamente focalizzarci sul salario minimo. Il rischio è di perdere di vista le mutazioni in corso nel mondo del lavoro. Prendiamo l’esempio dei working poor, l’argomento utilizzato delle autorità neocastellane per introdurre il salario minimo. Il numero dei lavoratori poveri in Svizzera è sostanzialmente stabile negli ultimi anni. Lo è per due motivi. Il primo è che la soglia per misurare i working poor è stata ridotta da 2.400 a 2.200 franchi mensili. Ma non è questo il motivo principale. La definizione di working poor esclude dal conteggio la trasformazione più importante degli ultimi anni nel mondo del lavoro, ossia la crescita dei lavoretti a tempi parziali e di durata sempre più breve. Se una persona lavora al 30% per pochi mesi e il suo salario teorico a tempo pieno è corretto, non figurerà nei working poor. Eppure lui povero lo è. È il fenomeno sempre più esteso della sottoccupazione, cioè di coloro che vorrebbero lavorare a tempo pieno ma nessuno li assume. Tutto questo mondo è escluso dal conteggio dei working poor. L’aumento dei tempi brevi dei rapporti di lavoro è a sua volta un indicatore dell’aumento del tempo di gratuità del lavoro. Bisogna esserne consapevoli, perché altrimenti focalizzandoci sul salario minimo che certamente tutela una parte della forza lavoro, si rischia di perdere di vista tutti quei soggetti le cui forme di lavoro sono radicalmente cambiate. Dobbiamo dunque immaginare nuove forme di reddito oltre a quella derivante dal lavoro, perché quest’ultima non riuscirebbe a coprire l’intero bisogno.




Pubblicato il

13.09.2017 16:27
Francesco Bonsaver

Salario minimo, una misura di politica sociale urgente

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