Comunicazione e capitale nel nuovo libro di Marazzi

La presentazione del nuovo libro Capitale & Linguaggio. «Ciclo e crisi della New economy», avvenuta ieri presso la libreria Leggere di Chiasso, dell’economista ticinese Christian Marazzi dopo i fortunati Il posto dei calzini (1994) e E il denaro va (1998), è stata l’occasione per discutere, con l’autore, attorno ai processi di modernizzazione (non sempre in meglio) dell’economia e dei cambiamenti strutturali che sono avvenuti nel mondo della produzione e consumo nell’ultimo decennio. Nel libro, strutturato in tre capitoli, Marazzi parte dal concetto di post-fordismo e arriva a quello di new economy, passando per la cosiddetta rivoluzione dei mercati finanziari e la «socializzazione della finanza», come definisce l’autore la massificazione dei comportamenti dell’investitore improvvisato, o meglio invogliato, da una serie di comunicazioni roboanti e ammiccanti a diventare finanziere self service. Il testo è una raccolta di lezioni tenute, dal professor Marazzi, docente Supsi (Scuola universitaria della Svizzera italiana) presso il dottorato di ricerca in «Scienza, tecnologia e società» che fa capo al dipartimento di sociologia e di scienza politica dell’Università della Calabria. Nel testo si ripercorre il quadro storico entro il quale si è mossa la cosiddetta new economy. Dal passaggio dal postfordismo al sistema a rete per dimostrare che in realtà non si è mai mossi da quel sistema – postfordista – di produzione. Un approccio storico della crisi della new economy. Cosa vuol dire? Che ci troviamo di fronte un fatto definitivamente chiuso o si potrà riproporre in altre forme? Diciamo che la new economy è stata studiata nella sua manifestazione ciclica, cioè nella sua fase espansiva come nella sua fase di recessione, ma ciò non vuol dire che è esaurita. Nella sua fase recessiva, attuale, la new economy, si è riconvertita o intersecata con la guerra in atto (quella al terrorismo). In un certo senso si può dire che questa guerra, se non ci fosse stato bin Laden, la si sarebbe dovuta inventare. Mi spiego. In pratica si sta cercando di convertire l’eccesso di prodotti creati nella fase del boom tecnologico, in dispositivi della società del controllo e della sicurezza. La fase recessiva è stata accelerata dalla guerra che ne ha ridotto la durata. Quindi guerra intesa come modo per smaltire le eccedenze di produzione? Questa non è una novità. È sempre stato così. Oggi ci troviamo di fronte a un nuovo eccesso creato dalle nuove tecnologie. Si parla anche di cornucopia digitale, cioè di eccesso di prodotti informatici. Nel mio libro c’è un capitolo dedicato all’economia dell’attenzione, che è una categoria analitica che permette di capire quali sono le caratteristiche della nuova economia che produce beni che richiedono, per essere venduti, una forte attenzione da parte del consumatore. Allo stesso tempo, questa nuova economia, riduce il tempo necessario per questa attenzione. Proprio perché richiede ciò che distrugge è più che una new economy è un anti economia. Il caso Microsoft è lampante per questa filosofia… Questo è dovuto alla natura immateriale dei prodotti, che per la loro caratteristica di merci linguistiche inducono un tasso di innovazione elevatissimo perché sono facilmente riproducibili. Il fatto stesso di lanciarli sul mercato li rende bene pubblici ma per mantenere viva la caratteristica fondamentale dell’economia capitalistica devono essere basati sulla proprietà privata. La continua innovazione è ciò che permette di privatizzare quello che è nato pubblico. È il caso di internet… La privatizzazione si con i diritti di proprietà intellettuale. Un esempio, divenuto classico, è quello dell’aspirina. È un prodotto di larga diffusione e consumo che può essere riprodotto da tutti ma per molto tempo la Baye ha mantenuto il brevetto. Questa stessa contraddizione di produrre, a mezzo di beni divenuti pubblici, prodotti privatizzati è una caratteristica fondamentale della new economy ed è la base della sua natura violenta. Io noto una certa simmetria tra la nuova guerra e la nuova economia. La presa di coscienza del grande pubblico della crisi della new economy, il grande pubblico l’ha avuta con la crisi dei mercati finanziari legati al settore high tech. Tu citi nel tuo libro l’avvento di internet come forma di socializzazione della finanza. Bastava un clic dal proprio terminale per accedere ai mercati finanziari di tutto il mondo e creare l’illusione della ricchezza. Questa euforia può ritornare o ormai è stata metabolizzata dai mercati? I mercati finanziari, come modalità di finanziamento del sistema industriale, sono un mezzo irreversibile, in realtà. Nella fase di crescita dei nuovi mercati, tutti prevedevano che ciò non poteva durare, ma nessuno poteva fermare questo processo di spostamento del risparmio mondiale sui mercati borsistici. Questo è connaturato agli stessi modi di produrre. È impensabile, nella new economy, immaginare un finanziamento di tipo classico, cioè bancario. Basta pensare alla ricerca e sviluppo. Quattro brevetti su cinque, ad esempio, sono finanziati con venture capital. La crisi della new economy ha messo a nudo le fragilità dei mercati finanziari. Ed è una crisi che dura da ormai due anni. Complice anche il fatto che è un’economia a vocazione delinquenziale. Basta pensare alla Enron. Nel mio libro ci sono una serie di elementi che portano a queste considerazioni. La nuova economia ha dato al general intellect, ai saperi diffusi, uno status di forza produttiva strategica. Ed è proprio la natura pubblica della forza produttiva, cioè il linguaggio, che porta a una serie di conseguenze determinate dalla natura capitalistica della new economy, che portano a quello che io chiamo l’articolazione della violenza. Violenti sono coloro che nascondono, ai piccoli e medi investitori, notizie o fatti importanti e rubano – perché è questo che succede – mettendo sul lastrico pensionati e casalinghe. Il tuo libro si intitola capitale e linguaggio. Come mai? Io sono arciconvinto che il linguaggio sia diventato l’equivalente della forza lavoro psico-fisico della vecchia economia. Oggi si produce comunicando. Anche la comunicazione delle oscillazioni di mercato è un mezzo di produzione. Basta vedere il caso di Bush in Giappone che sbagliando un pezzo del suo discorso fa crollare lo yen. Per poche ore, però è successo, e non è la priva volta. Ad un certo punto parli anche del ritorno del plusvalore… Questo lo faccio per una ragione ben precisa. Con le nuove tecnologie e l’affermarsi dello just in time e zero stock, si era dato per morto il concetto di produzione eccedente, il problema della realizzazione, o vendita, del surplus. Ora uno degli aspetti più sorprendenti della crisi della new economy è stato un accumulo di scorte enormi. Come si spiega questo nuovo accumulo se non con la teoria del ciclo e la diminuzione della domanda effettiva? Se a questo aggiungiamo la crisi del Welfare state, che toglie un altro fattore di creazione di domanda aggiuntiva, si capisce come la crisi della new economy dipenda da un eccesso di privatizzazione della ricchezza sociale. Christian Marazzi, «Capitale & Linguaggio. Ciclo e crisi della new economy». Rubettino, Collana Università, Catanzaro 2001. Questo libro, essendo pubblicato da una casa editrice universitaria, è possibile averlo solo ordinandolo in libreria o direttamente all’editore. In marzo 2002 verrà ripubblicato presso la casa editrice Deriva e Approdi e avrà circolazione canonica.

Pubblicato il

22.02.2002 03:00
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