Destinati a fare felpe

Quando leggerete questo articolo, probabilmente la sorte di 8.100 lavoratori italiani della Fiat sarà già segnata, salvo improvvisi colpi di scena. Schiacciati nel mezzo di una rissa da strapaese tra l’ultima grande industria privata e il governo del cavalier Silvio Berlusconi, le vittime sacrificali pagheranno le conseguenze degli errori e delle scelte strategiche del Lingotto. Così vuole la famiglia Agnelli, decisa a chiudere con l’automobile che non è più capace di costruire in modo competitivo con la concorrenza e si dirige sulla strada della pura finanziarizzazione. 8 mila e 100 lavoratori della Fiat, a cui si aggiungerebbero altri 24 mila dipendenti dell’indotto, delle aziende terziarizzate e della componentistica del settore automobilistico. Così vogliono le banche creditrici, esposte per decine di miliardi di euro con la multinazionale torinese e desiderosi di portare a casa i soldi prestati. Così vuole la General Motors, legata a un accordo con la Fiat che prevede tra due anni la possibilità di un put, cioè che l’intero comparto auto italiano (il 20 per cento è già Gm) finisca a Detroit. Gli americani vogliono un’azienda ripulita, cioè liberata dai suoi lavoratori. Vogliono il prestigioso marchio Alfa Romeo, meglio ancora il Cavallino rosso di Maranello – la Ferrari – e di tutto quel che rimane sono interessati soltanto a un paio di stabilimenti meridionali, quelli dove costo del lavoro e diritti sono al risparmio. Il resto che crepi, insieme a un secolo abbondante di made in Italy a quattro ruote. La parola fine, però, non è ancora scritta, anche se alle 24 di giovedì le procedure previste dal piano di dismissioni Fiat saranno state avviate e migliaia di lettere che annunciano la cassa integrazione a zero ore saranno state spedite. Nelle fabbriche dell’avvocato Agnelli è in atto da settimane una vera e propria rivolta operaia, come da oltre vent’anni non si vedeva. I primi a partire sono stati i lavoratori di Termini Imerese, lo stabilimento siciliano di cui i torinesi hanno deciso la morte, l’area sociale più difficile e a rischio dove l’impatto dei licenziamenti provocherebbe un disastro di proporzioni bibliche: più di due mesi di scioperi, buste paga ridotte a 100 euro e soprattutto il coinvolgimento dell’intero territorio, con tanto di Coordinamento donne alla testa dei cortei che vanno a bloccare strade, autostrade, porti, aeroporto, lo Stretto di Messina e altri stabilimenti del gruppo Fiat nel “continente”. Poi è stata la volta dei torinesi: Mirafiori è la fabbrica che rischia di pagare più cara la ricetta liquidatoria della Fiat, in una città in cui tutto è targato Fiat e dove alternative occupazionali e industriali diverse dall’automobile non ci sono, non sono mai state create. Quindi sono partiti gli operai di Cassino, lo stabilimento vicino Roma a cui era stato affidato il compito di risollevare le sorti dell’azienda con il nuovo modello, la Stilo, che invece si è rivelata un disastro. Per non parlare dei mai domi lavoratori di Arese, ridotti a due mila da 18 mila che erano quando l’Alfa Romeo era un’azienda pubblica, prima che venisse praticamente regalata all’ultimo patriarca del capitalismo familiare italiano. Ma cosa chiedono questi lavoratori, quale progetto hanno oltre a tentare, legittimamente, di salvarsi la pelle? Chiedono un nuovo piano industriale finalizzato non a chiudere ma a rilanciare l’auto in Italia. Serve un impegno finanziario e progettuale che punti al risanamento anticipando l’uscita di nuovi modelli e un investimento nella ricerca per avviare una grande innovazione di prodotto. Tutte le multinazionali del settore stanno preparando la rivoluzione dell’idrogeno, i nuovi propulsori ecocompatibili che negli ultimi anni manderanno in pensione l’automobile novecentesca che non ha più futuro. Tutte le multinazionali, dicevamo, tranne la Fiat, che ha abbandonato questo settore di ricerca e sperimentazione con la motivazione che a queste cose ci pensa mamma General Motors. La dice lunga sui progetti degli azionisti Fiat. Con un nuovo piano industriale incentrato sul recupero di qualità e dunque di competitività si può anche affrontare la crisi attuale, indubbiamente molto pesante, ma con strumenti solidali: cassa integrazione a rotazione per tutti e contratti di solidarietà alla tedesca, seguendo il modello adottato dalla Volkswagen qualche anno fa. Ma per fare e far applicare un siffatto piano non si può contare soltanto sulla forza operaia e sindacale e tantomeno sulle disponibilità a discutere e trattare della Fiat, assolutamente inesistenti. Lo Stato italiano deve entrare in gioco, perché la Fiat non è affare della più importante famiglia italiana né soltanto di chi ci lavora. Nell’arco di un ventennio l’Italia ha perso l’informatica e della gloriosa Olivetti restano soltanto le briciole e qualche call center, ha perso la chimica con Ferruzzi e Gardini, ha perso l’acciaio. Restano soltanto l’automobile e qualche paia di scarpe e felpe, il made in Italy costruito in realtà a Timisoara, nei Balcani, in Nordafrica, in Asia. Se il governo Berlusconi accompegnerà la fine dell’ultima grande industria nazionale, quale sarà la collocazione futura dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro? Lo Stato può entrare in gioco in due modi: assecondando i piani dell’azienda e facendosi carico dei conseguenti guasti sociali e occupazionali attraverso la concessione di ammortizzatori sociali, per salvaguardare quote risibili di reddito per decine di migliaia di lavoratori. Sarebbero soldi dati agli azionisti per licenziare. Una strada inaccettabile per i sindacati confederali e dei metalmeccanici che finalmente su questa battaglia hanno ritrovato l’unità d’azione. L’altra strada consiste invece nell’ingresso diretto dello Stato nel capitale Fiat. Non si gridi allo scandalo: la Volkswagen ha una forte presenza pubblica della regione dove ha sede la casa automobilistica, la francese Renault è ancora in gran parte pubblica. Sia la Francia che la Germania producono e vendono più automobili di quante i loro mercati ne assorbano, contribuendo positivamente al saldo della bilancia dei pagamenti. Questo è il punto di approdo di Cgil, Cisl e Uil, giunte all’unità nella vertenza Fiat, come dicevamo, dopo mesi e mesi di accordi separati firmati da tutti con l’azienda, con l’esclusione della Fiom-Cgil che dal momento in cui è stata annunciata la crisi non ha mai smesso di denunciare le conseguenze insopportabili della strategia del Lingotto. Oggi la Fiom chiede a tutti i sindacati confederali di promuovere uno sciopero generale nazionale dell’industria e dei servizi al fianco della lotta emblematica degli operai di Mirafiori e Termini Imerese. Perché il governo continua a sfottere gli Agnelli, ma senza la forza e la volontà di interrompere il gioco come farebbe un arbitro serio di fronte a una partita truccata. Invece gli italiani devono sopportare le battute di Berlusconi che attacca il management Fiat per dire che lui sì che saprebbe come risolvere la crisi: mettendo il marchio Ferrari alla Stilo o ai nuovi modelli, così d’incanto ripartirebbe la domanda e tutti vissero felici e contenti. È l’emblema del presidente-industriale di Arcore e della sua strategia comunicativa per vendere bidoni facendo credere alla gente che sono diamanti. Di ingresso pubblico nel capitale Fiat, il governo finge di voler discutere ma in realtà vede tale ipotesi come il fumo negli occhi, un insulto al liberismo, al primato del mercato sullo stato, e avanti con tutti i luoghi comuni di questa stagione politica. Berlusconi sfotte Agnelli, si vendica di quando, ai suoi albori affaristici, le grandi famiglie del capitalismo italiano lo trattarono da parvenu. Ma ad Arcore come a palazzo Chigi non c’è un’idea che sia una sul futuro industriale dell’Italia, solo chiacchiere e immagine. Sanno che non resteranno a lungo sulla breccia (non vorrei che fosse solo una speranza di chi scrive) e hanno poco tempo per arraffare. In questo sono del tutto simili ai 130 membri della famiglia Agnelli: la parola d’ordine è “prendi i soldi e scappa”. Prima domanda: lasceremo che se li prendano i nostri soldi? Li lasceremo scappare? Fiat, una crisi legata al prodotto di Loris Campetti La crisi della Fiat viene da lontano ed è tutt’altro che passeggera, come vorrebbe far credere il presidente del consiglio Berlusconi. È una crisi strategica, di management e di prodotto. Nel Duemila la multinazionale torinese ha stretto un accordo con l’americana General Motors partendo da un concetto giusto: nessun medio produttore, in un mercato saturo e affollato come quello dell’automobile, ce la può fare da solo. Peccato che la Gm fosse l’interlocutore meno adatto, perché troppo grande e i pesci grandi mangiano i piccoli, perché produce soprattutto in Europa (alla tedesca Opel) modelli del tutto simili a quelli Fiat e si rischia il cannibalismo. Se così dovesse finire, per Mirafiori non ci sarebbe futuro. Ma non è detto che finisca così. La Gm naviga in cattive acque, alla Opel – come martedì hanno spiegato, sui binari occupati della stazione di Torino, i delegati della IgMetal a quelli della Fiom – si parla di operai in esubero per un terzo del totale della forza lavoro. Il presidente Gm Rick Wagoner già pone le condizioni per l’acquisto nel 2004: fabbriche vuote. Punta sull’Alfa ma non sui marchi Fiat e Lancia, gli americani potrebbero comportarsi con i torinesi come si sono comportati con i sudcoreani della Daewoo: questo va bene, lo prendo e lo ristrutturo, quello va male e se lo tengano. La crisi di management è strettamente collegata al conflitto interno alla proprietà. In casa Agnelli è rissa per accaparrarsi la successione. La malattia che ha ridotto al silenzio l’avvocato Gianni ha rimesso in gioco il fratello Umberto, uomo di finanza totalmente disinteressato all’automobile che anzi vede esclusivamente come un peso. Il management nell’ultimo anno è stato rivoluzionato e ai posti di comando sono finiti uomini congrui a questo progetto liquidatorio. Sono stati fatti investimenti giganteschi in settori non strategici che oggi pesano sul bilancio come e più dell’automobile. L’acquisto dell’americana Case per incorporarla alla New Hollan ha riempito di debiti l’azienda, così come la scalata a Montedison. Il debito è diventato insopportabile anche grazie alla debacle degli ultimi modelli di vetture, Stilo in testa. E ora alla Fiat a comandare non è questo o quel ramo della famiglia, ma le banche creditrici – che hanno imposto il piano di rientro attraverso vendite di aziende e licenziamenti – e l’immancabile General Motors. La crisi di prodotto parte anch’essa da lontano. La Fiat si è mangiata uno dopo l’altro tutti i marchi automobilistici italiani e li ha affogati nel grande calderone della Fiat Auto. Ha puntato sulla fascia di mercato tradizionale delle utilitarie dove è stata regina per decenni, finché non è arrivata la concorrenza di tutti i marchi stranieri. Così, progressivamente la Fiat ha perso in volumi e quote di mercato, fino a scendere dal 50 a meno del 30 per cento del mercato italiano e a passare in Europa dal secondo posto subito dopo la Volkswagen al sesto. Anche la globalizzazione Fiat non ha aiutato. Una globalizzazione stracciona (con l’eccezione del Brasile), perché l’azienda torinese ha tentato di essere competitiva non sulla qualità ma sui costi. Così come ha sempre fatto in Italia: invece di migliorare il prodotto e investire sul futuro hanno lavorato al risparmio. E guarda caso, hanno risparmiato sulla forza lavoro. Le conseguenze drammatiche sono sotto gli occhi di tutti.

Pubblicato il

06.12.2002 03:30
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